Traduzione di Claudia Putzu
Editing di Andrea Corona
Noi della costa sappiamo che, per assicurarci il pasto, non c’è cosa migliore che imparare il mestiere dei nostri padri. Uno sente di esserci nato con quel lavoro, di non aver bisogno di andare a cercarlo altrove: è lì da sempre. In passato, mio padre sorvegliava un deposito, in un’area per il carico e lo scarico merci dei camion. Sul retro di quel deposito, si estendeva un terreno simile a una pista d’atterraggio costruita a metà. A incuriosire mio padre era l’assenza di un recinto, come pure il fatto che non fosse illuminato. Le volte in cui lo aveva attraversato, gli era parso che si replicasse sotto i suoi piedi; uguale e diverso allo stesso tempo: non sapeva bene come spiegarlo, dunque lo spiegò così al suo collega e a mia madre, e ogni volta che tirava fuori l’argomento, sbatteva le mani come ali di piccione. Alla fine, propose al collega di attraversarlo. Non ci pagano per fare gli esploratori, fu la risposta. Non conviene allontanarsi. Qui stiamo bene… cose di questo tipo. Ma a mio padre la situazione non convinceva, così decise di proseguire da solo, con una torcia. Il collega lo chiamò varie volte, fin quando mio padre non smise di udirne la voce, a causa del vento. Il terreno andava ripetendosi con variazioni minime. Sul fondo trovò un canale di scolo circondato da cumuli di spazzatura e quello che sembrava esserne il bordo, se non altro così sembrò a mio padre: che una parte di realtà non fosse finita. La stessa cosa l’aveva vista in un arcipelago del sud, una specie di falla o distorsione. Non aveva senso provare a oltrepassarlo, in ogni caso sarebbe tornato al punto di partenza. Lo sapeva, o meglio, lo aveva capito: non vi era una reale continuità, ma un’interruzione. Lo disse al collega, che non badò alle sue parole, magari non gli importava; si limitò a ordinargli di non abbandonare più il posto di lavoro. Mio padre annuì. Sulla via del ritorno, si fermò in un locale a prendersi una birra. Lì iniziò a parlare con una donna e finirono col fare una passeggiata. La accompagnò a casa e lei lo invitò a rimanere per un’altra birra. Mio padre accettò sorridendo e insieme entrarono nel cortile sterrato, e lei gli fece vedere il noce che i genitori avevano piantato alla sua nascita. Gli offrì una cassa per sedersi e mio padre accettò. Lei riempì per lui un bicchiere di birra, ne riempì uno anche per sé e propose un brindisi. Lo guardava fisso negli occhi e gli sorrideva (mio padre fissava a sua volta il fazzoletto che lei aveva legato al collo e il neo vicino alle labbra); poi gli chiese: «Ti va se te lo prendo in bocca?». Mio padre disse sì con la testa e allargò le gambe. Lei si inginocchiò e si legò i capelli con un elastico. Il corpo di mio padre iniziò a cedere, le sue mani a infilarsi tra i capelli di lei, mentre il vento agitava i rami dell’albero sopra di loro, ma, con la coda dell’occhio destro, continuava a guardare il bordo. Arrivò a casa circa alle quattro del mattino e lo disse a mia madre; lei rispose dicendo che non era un bordo, bensì una distorsione, dall’esterno si vedeva chiaramente. Ma mio padre non riusciva a venirne a capo, era come un serpente che si mordeva la coda.
Mio padre sosteneva che c’erano capsule, piani di realtà con delle falle: bisognava stare concentrati, per vederle.
Mio padre mi portava a nutrie da quando ero piccolo: lavorare in paese non gli piaceva. Mia madre non era d’accordo, pensava fosse pericoloso. A quel punto mi nascondeva nella barca, sotto dei teli, e restavamo fuori per due o tre giorni, la durata di una battuta di caccia al tempo. Da lui ho imparato tutto. Non era un cacciatore qualsiasi. Era il migliore. Riusciva a unire cose all’apparenza scollegate tramite un intreccio di connessioni ambigue, quasi laterali. C’è una storia che lo riguarda. È andata più o meno così.
Tra i cacciatori di nutrie della costa, girava voce dell’esistenza di un carpincho raro, diverso dagli altri, un esemplare unico, dal pelo bianco come una nuvola o un foglio di carta. Un carpincho che si mostrava al cacciatore solitario, a un uomo quand’era da solo, come un’epifania. Ma siccome la prima volta apparve al paesano più bugiardo, nessuno si azzardava a dire che quel carpincho esisteva davvero, o avrebbero detto di lui che era bugiardo come il paesano. Quell’uomo sosteneva che il carpincho avesse una voce da coro di chiesa. Nessuno gli credeva. Altre volte diceva che fischiettasse come un passero o una civetta: lui sentiva un fischio alle spalle, ma quando si voltava, rimaneva solo il fruscio dell’erba smossa da un carpincho in fuga dai fucili. Stanco di sentirsi preso per pazzo, andò a vivere per un po’ nei pressi di La Garza. Al suo ritorno, riprese a parlare del carpincho bianco che cantava e fischiettava. Mio padre diceva che quell’uomo mentiva per sopravvivere. Non gli chiesi mai cosa volesse dire. Non so, suppongo volesse dire quello e nient’altro: che mentiva per rimanere vivo. E può darsi che fosse davvero così perché, una volta invecchiato, smise di parlare del carpincho e di ogni altra cosa, gli si tolse l’abitudine di mentire e questo lo portò a morire prima, come se gli mancasse il pane quotidiano. C’era un altro paesano che, invece di carpincho, lo chiamava capibara, perché la moglie veniva dal Brasile, o forse era paraguaiana. Raccontava anche di una coppia passata di qui, dagli Stati Uniti. Lo aveva pagato per catturare un cucciolo di capibara, e se lo sarebbe portato via, per crescerlo in una casa di campagna vicino Disneyland. Lo faceva lavorare, lo esibiva, niente di più, e la gente pagava per scattarsi delle foto. Persino Topolino si fece una foto con l’animaletto. Quelle persone dicevano di averlo chiamato Gary e di averlo educato, che prendeva il cibo dalle mani. Non avevano figli, così il carpincho ne approfittò, si adattò allo stile di vita americano di quella gente e in pochi mesi sarebbe diventato un nuovo membro della famiglia. Dormiva sul divano, lo divideva con un gatto. Guardava pure la televisione. Non andava d’accordo con le tartarughe, questo sì: se ne vedeva una in giardino, impazziva, e i padroni gli sparavano un dardo per addormentarlo. Lo venimmo a sapere perché, alla sua morte, tornarono per prenderne un altro e ci raccontarono che dei randagi venuti dalla città si erano intrufolati nel giardino di casa e avevano ammazzato Gary a morsi. Gli domandai cosa ne avessero fatto della pelliccia. Il padrone mi disse che era diventata il coprisedile del furgoncino. Con una stoffa marrone, ci avevano cucito sopra la scritta “Gary”. «E la carne?» domandai. «L’abbiamo mangiata» mi risposero. «Alla brace». Li guardai come fossero dei primati. Ero arrabbiato. «Non si mangiano gli amici» dissi. «Si mangiano gli animali selvatici, senza un nome». Ci rimasero male per quel commento. Gli domandai se avessero fatto bollire la carne. Risposero di no. Gli spiegai che la carne di carpincho andava fatta bollire minimo un’ora, prima di metterla sulla graticola. E che andava appiattita. Mio padre si era stancato di ascoltare le mie chiacchiere e mi mandò a fare altro. Non voleva che gli facessi saltare l’affare. Catturò per loro un carpincho, e lo pagarono cinque dollari. Fine della questione. Non avevo mai visto un dollaro in vita mia, ma quando chiesi a mio padre di farmeli vedere, mi disse di averli già cambiati in pesos dal contabile. Lì si rese conto che lo avevano pagato una miseria, quindi andò in paese per rintracciarli e reclamare qualche dollaro in più: gli ci era voluto molto per andare a caccia di un carpincho e catturarlo vivo. Non era vero, non gli ci era voluto nulla. Alla fine, sborsarono quel dollaro in più. Non vidi neanche quello. Alla coppia illustrò le difficoltà, ingannandola; gli disse che il carpincho era come un leone; e loro, nonostante avessero cresciuto Gary come un figlio, abboccarono. Per me, un carpincho è docile come un piccione, voglio dire, hanno lo stesso carattere. È tra gli animali più tonti. Per questo piace agli americani, mi dico. Il carpincho non si sa difendere. Non sono fatti per vivere in natura. Devi stargli dietro e loro vanno dietro ad altre creature più sveglie. Eppure quel carpincho più bianco di una nuvola era diverso, era un’anomalia. Tutti ne parlavano. A tanti era passato molto vicino, lo avevano avuto sotto tiro, ma era così veloce da non avergli dato il tempo di sparare. Ogni tanto, un contadino o un cacciatore di nutrie diceva di averlo visto impigliarsi tra i giunchi, poi di colpo sparire. Io pensavo che, laddove quel carpincho fosse stato reale, doveva essere piuttosto anziano, visto che anche i paesani di ottant’anni parlavano di lui. Alcuni dicevano fosse il risultato della trasformazione di una suora annegata nella laguna. La suora stava lavando le sue vesti quando una di queste le sfuggì di mano; altri dicono che, forse, si era immersa di suo pugno per rinfrescarsi, ma era scesa troppo in basso, e così è morta. Riemerse giorni dopo, dall’altro lato, i suoi piedi intrappolati tra i giunchi, tutta bianca, bianchissima, e coi vestiti sporchi di fango. Il ragazzo che la vide provò a tirarla fuori, ma siccome non ci riusciva, andò a cercare aiuto; quando tornarono, lei non c’era più. Al ragazzo dissero che era più bugiardo del paesano di La Garza e lui pianse così tanto che alla fine gli credettero, ma solo dopo che lo aveva raccontato al prete. Vollero credergli. In fin dei conti la suora era sparita da un giorno all’altro, come se la terra l’avesse inghiottita. A tutt’oggi non si sa cosa ne sia stato di lei, cosa le sia successo. Sulla riva della laguna, i fedeli lasciarono fiori, alcuni muratori costruirono un santuario come quello del Gauchito Gil, il prete celebrò la messa all’esterno, sporsero denuncia, i poliziotti setacciarono la zona coi cani, ma alla fine tutti se ne dimenticarono. Con il tempo, iniziò a crearsi una connessione tra il carpincho bianco e la suora: per alcuni ne era come il simbolo, il segno che lei, lavando i suoi abiti, vagasse da quelle parti; altri dicevano che era la suora, che si era reincarnata in un animale.
Tornando alla questione del carpincho bianco e di mio padre, non lo aveva mai visto e, di certo, se ne rammaricava: era il miglior cacciatore della zona e c’era molta gente disposta a pagare bene, pur di ottenere quella pelliccia bianca come un lenzuolo. Gli americani avevano promesso cento dollari. Il carpincho è mio, diceva mio padre, mentre lustrava il suo wincher e osservava la laguna. Iniziò a parlare con chi diceva di averlo visto, andò in quei posti, fu risucchiato da quella faccenda, perse talmente tanto di vista la caccia alle nutrie, che dovevo andare da solo a ispezionare le trappole. Mio padre parlava di quell’animale come di una distorsione prospettica. Andava alla laguna e rimaneva a fissarla per ore, poi tornava a casa, mangiava in silenzio e andava a dormire senza nemmeno dare la buonanotte. Sulla terra del pollaio disegnava le mappe della laguna. Grattandosi la testa sulla rete metallica, le studiava, poi di colpo cancellava tutto con la punta delle scarpe. Disegnava di nuovo, cancellava, infine afferrava il suo wincher e si perdeva tra i giunchi. Mia madre piangeva negli angoli della casa, pensava che fosse diventato pazzo, e io le ripetevo che no, «È fissato con l’idea del bordo e della distorsione, gli passerà», e lei si tranquillizzava. Le pellicce di nutria smisero di importargli, così chiamai un mio cugino alla lontana, organizzammo il lavoro e ci andò bene, meglio che con mio padre. Noi guadagnavamo, mentre lui tornava a mani vuote. Smise persino di andare al locale a fare domande a chi diceva di aver visto il carpincho. La gente è maligna, iniziava a imbrogliarlo, a riempirlo di bugie. Prima mio padre credeva di essere il protagonista dell’esistenza, ma a partire da quel giorno iniziò a vedersi come uno spettatore della sua stessa vita, le cose accadevano intorno a lui, che restava a guardare. O meglio, continuava a vedersi in una posizione centrale, ma era come se fosse intrappolato in una qualche rete o una patina invisibile si fosse posta tra lui e la realtà e non potesse fare nulla per liberarsene. Dalle nutrie, mio padre passò a studiare i movimenti dei carpinchos. E no, non ne toccava nessuno, convinto che lo avrebbero portato al più bianco di tutti, quello della suora. O dalla suora stessa, come erano soliti dire i cacciatori quando parlavano dell’animale. Qualcuno era arrivato persino a insinuare che mio padre avesse a che fare con la morte della suora e che si fosse messo in testa di ritrovare il corpo. Che assurdità! Certa gente apre la bocca e gli dà fiato, non trova pace, vuole macchiare la reputazione altrui, per poi fare finta di niente.
Una mattina, molto presto, mio padre mi disse: «Forza, Lisandro, vieni con me». Salimmo sulla barca e, prima del sorgere del sole, eravamo già sull’altra sponda, dove la laguna diventa tutta vegetazione. Mangiammo dei crackers con un salamino e mio padre si scolò, senza condividere, una fiaschetta di vino rosso. Non so per quante ore rimanemmo lì. Mi si addormentarono le gambe, a causa dell’ondeggiare della barca, ma dovetti comunque resistere. Mio padre diceva che, sul bordo, doveva esserci un varco purpureo, dal quale si poteva accedere e vivere altre vite: in una di queste, lui era un ingegnere di quarant’anni, leggeva Dickens, eccetera; in un’altra, invece, era un microbiologo impegnato nella realizzazione di una bomba al cianuro di idrogeno, per sprigionare un gas tossico in un impianto di aerazione. Era avvolto in quest’ultimo pensiero quando ciò che aveva atteso per tanto tempo si palesò a pochi metri da noi: una sagoma bianca come la schiuma, mi verrebbe da dire bianca come una montagna di zucchero sotto un cielo coperto. Eccolo lì, il carpincho bianco, la suora capibara, un tutt’uno, animale e persona. Le nutrie della laguna saltarono fuori con le loro testoline, per vedere quella creatura stravolgere il paesaggio, trasformare ciò che conoscevamo come il palmo della mano in un mistero. Mio padre esitò un secondo. Con lo stesso movimento di un ramo in caduta, affondò la mano nel pozzetto della barca, afferrò il wincher di mio nonno e se lo infilò come fosse un calzino o un guanto. Inspirò a fondo e spense la sigaretta sulla culatta. Il carpincho bianco guardò a destra e a sinistra, come per attraversare la strada, incurante della curiosità delle nutrie che lo guardavano come si guarda Gesù, quando lo si prega di curare ogni malanno. Mio padre posizionò il fucile sulla spalla, e il suo corpo assunse un’altra postura, la postura del cacciatore, quel modo di unire i piedi e alzare i gomiti, come un uccellino sul punto di spiccare il volo, il wincher accostato al corpo segnato dalla vita di campagna che facevamo. Puntò la creatura ed entrambi iniziarono a fissarsi come fossero vecchi amici. Sembravano due carpinchi complici. D’un tratto, quel quadretto felice fu smontato dalla sicura del wincher. Mio padre spalancò un occhio, chiuse totalmente l’altro. Occhio per occhio, pensai. Mi sentii felice, avrei riavuto mio padre. Anche per i cento dollari. Da lontano, il cinguettio di un benteveo. Entrò in scena il vento, danzò a spirale per poi smorzarsi. Un raggio di sole trafisse le nuvole, illuminando il carpincho bianco che ora inclinava la testa. Il candore era tale da far venire le lacrime agli occhi. Mio padre deviò l’arma e disse: «Guarda là, rifatti gli occhi perché non era una bugia. Non è una bugia!». Mio padre si risedette. Il carpincho non la smetteva di fissarci. Afferrai un remo e, premendolo nel fango, slegai la barca dagli steli di paglia selvatica e ci allontanammo piano, in direzione della boscaglia, un po’ amareggiati da quell’epilogo di cui non avremmo parlato con nessuno, neanche tra di noi. Il silenzio divenne pesante. L’aurora diede un nuovo colore al cielo e alla superficie della laguna. Rimanemmo accecati.
Ancora oggi sento la presenza di quel carpincho che ci seguiva con i suoi occhietti stralunati, così tranquilli, di chi sa quello che fa e per questo lo sa fare bene. È una presenza che sconvolge, che ti piega in due. Alcune volte, molto di rado, mio padre mi dice, sguardo basso, che non ne siamo stati all’altezza.
Gli autori:
Ariel Luppino nasce a Monte Grande, nel 1985. Ha pubblicato Las brigadas (2017), Las máquinas orientales (2019), ¡Paraguayo! (2020), apparsi in Italia con i titoli Le brigate (2020), Le macchine orientali (2021) e Paraguaiano! (2023), nella traduzione di Francesco Verde; Serbia o no Serbia (2021), La Otra Vida (2022), La Máquina (2023) e Mi sueño místico (2024) per Club Hem, La Risa (2020), Tratado de insectología (2021) e La guerra de las cajas (2022) con FA Editora; Una novelita soviética (2019), Contra las MM (2020) e El movimiento silencioso (con Noelia Carrizo, 2025) per la Oficina Perambulante e El Decapitado (2021) con Golosina Caníbal presenta… Ha creato e dirige progetti come El Tercer Ojo, Clandestina Chinatown, la Biblioteca Popular Rita Lee, el Museo Oculto, La Otra Caja e la Escuela Clandestina de Escritura. Le sue opere sono state tradotte in italiano e portoghese. Attualmente sta scrivendo un libro di conversazioni telepatiche con Felipe Polleri e un testo intitolato Montegrande.
Carlos Ríos nasce a Santa Teresita, provincia di Buenos Aires. È docente alla Facultad de Artes della UNLP, e editore artigianale dell’Oficina Perambulante, è membro della rivista Bazar Americano e ha fondato, insieme a Marjolaine David e Francisco Portualé, la Unidad Básica de Experimentación Editorial. Da più di quindici anni coordina laboratori di scrittura e di produzione editoriale. Ha pubblicato più di venti libri, tra cui Estonia, Diario de los chapuzones, Falsa Familia, Hikikomori argentino, Rebelión en la ópera Un día en el extranjero, En saco roto, El artista sanitario e Manigua; quest’ultimo pubblicato in Italia da Edizioni Arcoiris, nella collana Gli eccentrici e con traduzione di Alberto Bile Spadaccini.










