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Stupore indigeno, Massimo Canevacci

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Joseph Conrad scriveva: “E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle”. Questa frase è tratta da Cuore di tenebra, uno dei più grandi romanzi che siano mai stati scritti, incipit delle storie sconclusionate che attraggono gli eterni esploratori, un diario di viaggio che si avventura nelle profondità dello sconosciuto, per introdurre un altro diario di viaggio, forse il più appassionato, il più profondo, nato dalla penna di un antropologo e docente che, ad anni di distanza dalla sua ultima pubblicazione, accompagna chi legge nelle viscere di uno Stato che per secoli ha rappresentato (pagando talvolta un prezzo alto, per questo) uno dei cuori di tenebra di questo pianeta: il Brasile. Il libro si intitola Stupore indigeno, scritto da Massimo Canevacci e pubblicato da Mar dei Sargassi Edizioni, per la collana di saggistica Camalote, chiamata così in onore all’autore stesso, incontrato dal direttore editoriale della casa editrice di Portici durante una delle innumerevoli lezioni di antropologia culturale tenute dal professore a La Sapienza.
Il camalote è un fiore che germoglia in Amazzonia e presenta una particolarità: le sue radici non restano impiantate nelle oscurità della terra, bensì navigano nei grandi fiumi che solcano la foresta pluviale: è in questa immagine che Massimo Canevacci riscopre e riconosce la bellezza dell’antropologia, una disciplina che riesce a trasformare le sue radici (i suoi caratteri fondativi) in nuovi itinerari, senza mai accettare di essere identica a sé stessa e della quale l’antropologo italiano accoglie la sfida odierna di spingersi fino ai margini della società, per fare luce su quelle culture silenziate e rimosse del nostro tempo, strutturando un saggio che non si avvale della metodologia etnografica – si cita testualmente – “anzi professa e pratica una indisciplina metodologica basata sulla spontaneità e lo stupore” per raccontare la sua esperienza dell’incontro con le affascinanti e complesse realtà che abitano il Mato Grosso brasiliano.

canevacci 620x400 1Era il 1992, quando sullo sfondo delle impetuose cascate di Iguaçu, Massimo Canevacci, che avrebbe dovuto incontrarsi con la professoressa Claudia Menezes, conobbe Domingos e Arquimedes, due xavantes; con il primo dei due nacque un’amicizia fraterna, tanto che questi lo inviterà negli anni successivi a visitare la sua aldeia, dando inizio a una serie di esperienze che avrebbero permesso all’autore di visitare diversi villaggi, immergendosi nella quotidianità delle popolazioni indigene ed esplorando luoghi estranei alla maggioranza dei brasiliani, sconosciuti a diversi docenti. Esperienze che ha raccolto in Stupore indigeno, libro che consente al lettore di immergersi tra le comunità Xavante, Bororo e Krahô, molto diverse tra loro e che insieme costituiscono un mosaico culturale estremamente variegato; un esempio di questa pluralità è l’insieme delle manifestazioni connesse alla morte, ammirate dall’interno, dall’antropologo: tra i Bororo, il cranio del defunto viene dipinto di rosso e adagiato su un letto di piume che richiamano l’arara, animale totemico e cosmogonico della comunità, evidenziando quella ciclicità per cui si ritorna da dove si è venuti, a quell’esplosione di colori di cui si rivestono i maestosi volatili, ammirando la triste bellezza di quel dualismo che tesse tra la vita e la morte un legame indissolubile; i Krahô, quando lasciano questo mondo, se ne vanno senza un nome, mentre il loro corpo, in segno di rispetto, è sorretto da un loro “fratello”: l’osservazione dei rituali funebri, insieme ai riti di passaggio degli Xavante, oltre ad essere custoditi come preziosi ricordi, rappresentano quella tradizione millenaria che coesiste con l’inevitabile incontro tra queste popolazioni e l’altro, il nuovo e il “progresso” tecnologico e scientifico sopraggiunto nel corso degli anni e come esso abbia inciso nella loro realtà e da cui deriva lo sviluppo di produzioni di tipo audiovisivo, nelle piccole aldeias.

Nei primi capitoli del libro vi è un passaggio fondamentale che vede il professore filmare con la sua cinepresa Divino, un indigeno, che a sua volta filma con la sua cinepresa un rituale: questo aneddoto è forse l’elemento scatenante delle domande che sono il punto di partenza e al contempo il fulcro di questo saggio e che hanno determinato la scelta politica ed epistemologica alla sua base: chi ha il diritto di rappresentare l’altro e chi l’obbligo di essere rappresentato? Dunque viene a crearsi una sorta di dualità, nel corso della lettura, fondata sull’auto-rappresentazione, che trasforma il libro in un dialogo indiretto tra l’autore, Massimo Canevacci, soggetto che si mette in discussione, per accogliere il nuovo e lo sconosciuto, da un lato. Dall’altro le culture “native” che – si ripensi all’immagine del camalote – abbracciano, seppur conservando la loro memoria e i loro modelli, l’esperienza della “modernità” e dei suoi mezzi, aspetto che diviene particolarmente significativo, nel momento in cui il racconto si imbatte in un’ombra che si insinua tra le crepe di strade infilzatesi come spade di cemento, nel cuore di quelle “foreste che attendono la fine dell’invasione” (J.C.), percorse da camion che trasportano la soia, mentre passano dinnanzi a questi piccoli agglomerati, relegati al margine del margine di una società in continua trasformazione che li ha resi musei a cielo aperto, nell’errata e conseguente convinzione che essi siano immutabili, ma i cui abitanti con vigore portano avanti la battaglia a cui sono stati chiamati dalle politiche predatorie inaspritesi sotto l’egida di Bolsonaro, a difesa del loro diritto originario, per arginare un genocidio culturale e un ecocidio che vanno avanti dalla cosiddetta “scoperta”.

Tradizioni passate, prospettive future, il vissuto personale, la profondità dell’amicizia, la rivendicazione della propria esistenza, uno spazio interminabile e misterioso diventano i punti di riferimento di una narrazione che intreccia poesia ed etnografia; stelle di una costellazione, unite da una traiettoria segnata dallo stupore, che seppur – come il professor Canevacci scrive – non sia potuto essere il metodo della ricerca, è stato la chiave per abbandonarsi alla spontaneità di un’esperienza, che oltre ad aver donato al lettore la possibilità di conoscere ciò che si cela dietro il muro dell’indifferenza che imprigiona determinate realtà in uno stereotipo e le relega ai margini della Storia, offre la testimonianza di un mondo che vive e il cui grido di libertà, per quanto la sua eco risuoni molto lontano da qui, ci unisce nell’essenza di un ideale universale e indivisibile.

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