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Cynthia RimskyYomurí rappresenta la destinazione finale, così come il romanzo dell’autrice cilena Cynthia Rimsky, dall’omonimo titolo, rappresenta il culmine di un processo di scrittura durato anni prima di arrivare alla sua effettiva pubblicazione, avvenuta recentemente anche in Italia nella traduzione di Silvia Farloni, grazie alla casa editrice Edicola Ediciones, che sceglie come copertina un’immagine fortemente significativa: su uno sfondo ceruleo, un albero si innalza da uno sciame di radici raggruppate in una forma sferica che lo sorreggono.

Le radici, per quell’albero sono un punto di inizio, il suo mondo, forti e resistenti, salde; il tronco si innalza, imponente e borioso, forse un po’ storto, ma ce la farà; i rami con dignità inseguono il miraggio di toccare il cielo, rivestiti di foglie che si aggrappano al legno, ma il vento a volte soffia forte e pone questi ultimi dinnanzi alla presa di coscienza più difficile, quella che avviene nel momento in cui c’è solo da accettare di dover lasciare e lasciarsi cadere.

È nell’istante prima della caduta che si sviluppano le storie dei personaggi che abitano Yomurí: Kovacs, ormai anziano, sta per essere internato in una casa di riposo; Eliza si ritrova sulle spalle il peso della decisione, quella di rinchiudere suo padre in una struttura fuori dal tempo, tra laboratori d’arte e scrittura in cui si ricerca una magra consolazione, un appiglio per convincersi delle frasi come “starà bene”, “staranno tutti meglio”, nel mentre spera però di portarlo con sé a Ginevra. Dall’altro lato, un gruppo di nativi e la loro carovana di case mobili si dirige verso quelle terre che in passato appartenevano alle loro famiglie. Le loro strade, casualmente, si incontrano lungo una strada sterrata, dove non c’è niente, non un autobus, non una stazione di servizio, per dare inizio a un viaggio che vivranno insieme, ognuno verso una destinazione dai contorni poco definiti, ognuno verso le proprie risposte, con sulle spalle i fardelli di amori finiti, debolezze e disincanto, per ricostruire e affidare a quell’incertezza la speranza di dare un senso al loro vagare in questo mondo; per lasciare qualcosa a questa Terra, nell’istante in cui la lasceranno per sempre.

Il tempo è qualcosa che la scrittura di Cynthia Rimsky, in questo romanzo, assapora fino all’ultimo: non vi è fretta alcuna, né la smania di lasciare che la narrazione incalzi o esploda; non cerca di dare a chi legge il colpo di scena che sta cercando.

Al contrario, l’autrice cilena riveste queste pagine di dettagli mai ridondanti, per restituire una narrazione stratificata in cui unisce l’esperienza personale dei suoi personaggi a questioni di natura sociale molto importanti, non come fossero due entità distinte e separate, ma come due aspetti in continua comunicazione.

Da un lato abbiamo una figlia di fronte a un padre, un uomo anziano con tutte le sue colpe; dall’altra il bene di una donna ormai adulta e in una relazione difficile, che cerca il perdono, nonostante un passato di assenza continui a tornare. Ci sono due ragazzi che sono troppo giovani per amare. Una donna tra le strade deserte del Cile che parla dei fardelli che ognuno si porta alle spalle, tanto quanto della bellezza della comunità, della possibilità di recuperare insieme. Poi ci sono i diritti e le lotte sempre vive, mai scontate, che diventano comuni, per proteggere la propria casa dallo sfruttamento, per creare poi una casa comune. E nell’avventura che unisce i percorsi dei protagonisti tracciati nel romanzo, il loro viaggio verso Yomurí diventa la metafora di sé stessi, un viaggio alla ricerca della strada di casa, quel luogo reale quanto interiore, in cui persino i cuori più irrequieti trovano la loro pacificazione.

È a partire da letture come questa che nasce il pensiero che la letteratura non sia solo una caccia alle figure retoriche, ai virtuosismi, all’originalità, per trasformare un libro in un classico immortale. L’immortalità letteraria è un’impostura, dichiarò Bolaño: finiranno Shakespeare come Cervantes; ma non finiranno forse quei tentativi di fotografare alcuni momenti della vita, talvolta per rispondere alle domande di chi intrappolato e soffocato in un reticolato di fughe, decisioni difficili, rinunce, peregrinazioni, cadute, cerca una risposta all’unica vera domanda a cui si affida la possibilità di mostrare all’orizzonte un tenue raggio di luce: ci sarà qualcosa pronto ad accogliermi, una destinazione finale su cui planare, un qualcosa a cui tornare, sia pur esso un pezzo di terra qualunque? Certo che c’è.

Claudia Putzu

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