La storia del Brasile è la storia di un’enorme promessa. La storia di una nazione che, più di ogni altra, ha i requisiti per essere pacifica e prospera.
Perché il Brasile non è stato in grado di mantenere la sua grande promessa? Perché circa 63 milioni di brasiliani vivono al di sotto della soglia di povertà? Perché l’insicurezza alimentare colpisce 125 milioni di persone? Perché solo l’1% della popolazione concentra il 50% del reddito nazionale e perché meno dell’1% dei proprietari di terreni agricoli possiede il 45% dell’area rurale del Paese?
Perché ci sono così pochi afrobrasiliani in posizioni manageriali, anche se più della metà della popolazione è nera? E perché ogni anno vengono uccise 50.000 persone, cioè 130 ogni giorno? Il “paese del futuro”, tanto decantato dallo scrittore viennese Stefan Zweig nel 1941 dopo averne riconosciuto l’enorme potenziale, attende ancora quel futuro, a 200 anni dalla sua indipendenza.
Alla sua fondazione, nel 1822, la nazione brasiliana presentava già un difetto: a differenza delle colonie di lingua spagnola in America Latina, non divenne una repubblica, ma una monarchia. Il primo capo di stato fu l’imperatore Pedro I, in origine il principe ereditario del Portogallo, ma sebbene Pedro I avesse promesso di fermare l’importazione di schiavi, i proprietari terrieri trafficanti di schiavi ignorarono la misura. L’élite bianca riteneva che lo sfruttamento e la repressione di altri esseri umani fosse un loro diritto, che giustificavano con argomenti razzisti. Questa mentalità è rimasta una caratteristica dell’élite brasiliana fino ad oggi.
Solo nel 1888 fu proclamata la fine della schiavitù in Brasile, l’ultimo paese in America ad abolire questa pratica. Nel XIX e XX secolo, centinaia di migliaia di portoghesi, italiani, spagnoli e tedeschi impoveriti immigrarono, in condizioni iniziali completamente diverse rispetto agli schiavi africani.
Questi ultimi furono liberati, senza capitale iniziale, senza formazione, senza terra, senza lavoro, senza nemmeno scuse. Furono così poste le basi per la continuazione della loro dipendenza e sfruttamento, con tutti i problemi che ne derivavano. E così è ancora oggi: la schiavitù è la grande vergogna del Brasile, il suo perpetuarsi sotto un altro nome e ciò che comporta costituiscono un ostacolo gigantesco per il Paese.
In 200 anni, l’ordine sociale verticale del Brasile non è cambiato quasi mai, nonostante gli impulsi di modernizzazione intermittenti, ad esempio con la creazione dell’Estado Novo sotto Getúlio Vargas. Negli anni ’50, il Brasile ha ospitato il Mondiale di calcio, è stata fondata la compagnia petrolifera statale Petrobras e la nuova capitale, Brasilia, aperta nel 1960, è diventata il simbolo della grandezza tanto sognata della nazione.
Solo quattro anni dopo i militari avrebbero messo fine al sogno con un colpo di stato il 1° aprile 1964, che diede inizio a 21 anni di dittatura.
Nei primi anni dopo la ridemocratizzazione, un vecchio problema brasiliano che era stato nascosto sotto il tappeto durante la dittatura è diventato di nuovo evidente: la corruzione.
La convinzione che il Brasile dovesse finalmente essere più equo ha portato al potere Luiz Inácio Lula da Silva, del Partito dei Lavoratori (PT) di sinistra, all’inizio del XXI secolo. L’ex sindacalista ha lanciato programmi per combattere la povertà, il flagello crudele della nazione, determinando crescita economica. Ma poi è arrivata la caduta: il Paese è precipitato in una crisi economica, accompagnata da un gigantesco scandalo di corruzione intorno a Petrobras a cui è seguita una crisi politica, sociale e morale.
Nel 2018 l’outsider politico di estrema destra Jair Bolsonaro è stato eletto Presidente, portando il Brasile a compiere un passo indietro: ha iniziato a demolire lo Stato e a tagliare massicciamente i finanziamenti per l’istruzione, la cultura e, soprattutto, la tutela dell’ambiente.
Nel 200° anniversario della sua indipendenza, il Brasile si trova ancora una volta a un bivio: essere più moderno, più giusto e finalmente attivare le sue potenzialità per il bene di tutti; o regredire ancora di più in un passato oscuro.