«Si dice a proposito dei testi qui presentati […], che si tratta in realtà di una sottile allegoria che descrive, passo dopo passo, il penoso procedimento per ottenere la Pietra Filosofale […]».
Inizia così la sessantasettesima – ognuna indicata con numeri romani – prosa della raccolta A caccia di conigli scritta da Mario Levrero e nella magistrale traduzione italiana di Raul Schenardi, pubblicata dalla casa editrice pièdimosca come undicesimo volume della collana glossa, dirottata a margine da Carlo Sperduti.
La prosa prosegue nelle sue congetture; in effetti, lascia il tempo che trova il tentativo di sintetizzarlo e spiegarlo, il libro, attraverso cui l’autore uruguaiano propone un esempio di letteratura che non teme la possibilità di disattendere le aspettative del lettore, per il quale – come si legge in Il discorso vuoto – si rivela quasi dispiaciuto di sottoporlo alla lettura di «pagine e pagine piene di niente», al cui interno però si prende parte all’esperienza di una lingua che gioca con l’allegoria nei giochi linguistici (riportati meravigliosamente in italiano da Schenardi) a sottolineare un’ambiguità e una pluralità di livelli di interpretazione di fondo e in una scrittura che invece va a togliere, scongiurando la minaccia di inutili riempitivi.
Avevamo un piano geniale. Ogni dettaglio era stato previsto. C’erano cacciatori solitari, e gruppi di due, tre e quindici. Nel complesso eravamo in tanti, e nessuno pensava di ubbidire agli ordini.
Un prologo ci informa dell’addentrarsi di squadre di cacciatori nel bosco, dove ci sono ragni che sparano con le cerbottane, maghi con il cappello a cilindro, poi guardaboschi, cacciatori che si camuffano da guardaboschi, anziani saggi e giovani idioti, donne oggetto del desiderio, e infine i conigli; elementi che sono tasselli di una storia frammentata che arriva a sondare degli archi più profondi, nelle varie prose che la compongono e che insieme costituiscono quello che forse è tra gli esperimenti letterari più inclassificabili di Levrero, che già al suo esordio, negli anni ‘Settanta (la prima uscita di A caccia di conigli risale al 1973) non mancò di essere sommato tra le voci più significative, nei percorsi che la letteratura ispanoamericana andava tracciando, per quanto, per la sua effettiva riscoperta, si sarebbe dovuto attendere ancora molto.
Arrivati all’immenso bosco, l’Idiota ha alzato una mano e ha impartito l’ordine di disperdersi. Avevamo un piano generale.
Sin dai primi testi, il bosco si rivela essere un luogo in cui ciò che è non è mai quello che è. I personaggi si ritrovano travolti in medias res dagli eventi. I conigli sono la preda, il bersaglio, ma – in virtù di quanto detto – anch’essi si camuffano, sono difficili da scovare e da catturare. Paradossalmente, la loro nascita è uno spettacolo gradevole alla vista; in ogni caso resta il loro parer essere incontrastabili, subdoli, industrializzano e sequestrano per sottomettere alle loro logiche chicchessia; eppure così si legge nella prosa XLII:
La forza dei conigli sta nel fatto che tutti quanti credono nella loro esistenza.
Vengono in mente le parole di Kafka, estrapolate dai suoi diari scritti tra il 1910 e il 1923, più precisamente in questo caso, parte di una pagina datata 31 dicembre 1911, quando egli aveva già incontrato Bergmann, con il quale si intratteneva in discussioni circa l’esistenza di Dio: «[A partire da uno spunto datogli da una rivista] si contrapponevano un orologio al mondo e l’orologiaio a Dio e l’esistenza dell’orologiaio doveva dimostrare quella di Dio. Secondo me riuscivo benissimo a confutare ciò di fronte a Bergmann, anche se la confutazione non era molto solida dentro di me».
Una sensazione analoga la vivono forse i personaggi che popolano A caccia di conigli, per cui questi animaletti rappresentano un nemico sfuggente, quasi invisibile. Lo scrittore, a sua volta, non è mai un passo avanti a loro. Al contrario, l’operazione che Levrero compie è avvicinabile a quanto asseriva Quiroga nelle sue linee guida sul racconto breve: «Prendi i tuoi personaggi per mano e accompagnali fino alla fine, senza perderti in qualunque cosa esuli dal cammino che inizialmente hai tracciato. Non perderti a osservare ciò che loro non vedono o non hanno interesse di vedere» (trad. mia).
Se ci si vuole proprio appellare a una concezione sferica della narrazione – i personaggi dirigono il loro sguardo, fisso, costantemente, verso il nucleo della loro ricerca, senza alcuna intenzione di discostarsi dalla verità che ritengono come unica vera; nani di mente, come li chiamerebbe Lentini, che si soffermano sull’apparenza delle cose e non deragliano mai. Levrero scriveva una cosa simile nel suo romanzo d’esordio, La città, quando il protagonista e la donna da lui incontrata a bordo di quel camion discutono sulla presenza dell’albero all’imboccatura di un sentiero e lei gli dice: «Il fatto è che tu vedi le cose dal tuo punto di vista, e quando credi che qualcosa sia in un determinato modo, non riesci ad ammettere che, in realtà, potrebbe non esserlo» (Trad. mia).
[…] il vero nemico è il bosco
Nella postfazione, Schenardi menziona due opere di Cortázar: Storie di cronopios e di famas e Lettera a una signorina a Parigi.
Nel primo caso, si parla di «creature fantastiche che rappresentano una contrapposizione fra la trasgressione delle norme sociali e una vita poetica guidata alle emozioni (i cronopios) e una concezione del mondo basata sulla razionalità e sul rispetto delle regole (i famas)». Anche in A caccia di conigli vi è questa contrapposizione, tra i guardaboschi e i cacciatori; sulla base delle parole di Kafka, di cui sopra, e la prosa di Levrero pocanzi menzionata (XLII), qualora per questi ultimi l’esistenza – effettiva o meno – dei conigli fosse ciò di cui hanno bisogno, per essere tali; qualora l’esistenza di questi esseri non fosse stata messa in dubbio dal principio, una probabile lettura attribuibile a questo animaletto sarebbe il suo essere l’allegoria della relazione tra soggetto e spazio.
Infatti, la seconda opera dell’autore argentino racconta di un uomo costretto tra le mura del suo appartamento, infestato da conigli: in alcuni casi sanno essere carini, belli da addomesticare; in altri casi, la loro presenza è soffocante; al contempo – quando vomitati – restituiscono la dimensione materiale di tutto ciò che mai potrà essere comunicato, anche nel momento in cui cessa di essere astratto. L’associazione tra coniglio e incomunicabilità è un qualcosa di già visto in letteratura: la ritroviamo nel libro di Carrol, torna ne Il discorso vuoto, dove si racconta di un coniglio marroncino oggetto del sogno della voce narrante, la quale teme per lui, proprio per questa ragione; quest’ultimo invece scappa via ai margini di quelle parole e di quelle pareti in cui non stiamo più.
E se ad esso, come ben dice Schenardi, in A caccia di conigli sembrano associarsi le libere idee, allora si spiegherebbe la necessità di sottometterlo. Come in Poeta cieco di Mario Bellatin, i personaggi sono incastrati nei loro epiteti – cacciatori e guardaboschi – ognuno con l’intento di sconfiggere il proprio nemico, in una corsa per recuperare una stabilità impossibile. Di contro c’è uno scrittore che accoglie l’ironia del giogo dell’assurdo, alla cui logica tutto risponde e che si espleta proprio in quel bosco che tali distinzioni le abbatte, nel quale si è ombre destinate a svanire; non a caso nella prosa numero LXI, c’è un riferimento alla Guerra dei Nasi Forati, combattuta nel 1877, tra il popolo di Capo Giuseppe, a cui si attribuisce quella frase, e l’esercito statunitense, scoppiata dopo che il giovane governo nordamericano era venuto meno all’accordo per cui alla comunità sarebbe stato garantito il diritto di prelazione sulle terre da loro abitate da generazioni. La capitolazione del Capo è la capitolazione dell’Idiota di Levrero, a dimostrare la vacuità della contrapposizione di base: non si è né cacciatori, né guardaboschi; i conigli, un promemoria per cui si è – solo – frasi di quel discorso vuoto. L’obiettivo dunque non è più vincere quella lotta, piuttosto il venirne fuori.
[…] però, le storie di conigli nascono da sole, inesorabilmente.
L’autore abbraccia, in questo libro, la poetica dell’irrisolvibile incertezza, dell’imprevedibilità – come scriveva Rama, che fa parte della vita – contrapposta al tentativo di tracciare tra le pagine un percorso coerente, quantomeno un piano generale deragliato in un caleidoscopio frammentato che – come un inevitabile effetto collaterale – prende forma, man mano che la narrazione prosegue.
A sottolinearlo è l’Epilogo, nel suo essere un ribaltamento del Prologo con cui il libro si apre: esso rappresenta una sospensione, il probabile prologo di storie che nascono da sole e di cui non leggeremo e il cui epilogo sarà l’inizio di altre storie; ognuna che parte con meno certezze della precedente.
Claudia Putzu