Ha scritto John Berger che un’alta posta in gioco e un margine di manovra ridotto, quando sussistono assieme, generano a volte grandi risultati. Si riferiva all’arte visiva, ma qualcosa di simile accade, secondo me, anche nella scrittura letteraria: quando scrivi e ti giochi tutto in pochi paragrafi, niente di superfluo né di casuale, fai un progetto in scarsità di spazio e non puoi sforare i limiti né sbagliare. E poi accade qualcosa che non sai bene, scoppia una bufera, un fuoco senza colore, e il tempo si dilata in quello spazio: il racconto breve, insomma.
Non ricordo in quale scritto né le parole esatte di John Berger, ma ho pensato a quel passo quando ho aperto per la prima volta Bestiole: un centinaio di pagine, diciotto racconti brevi, alcuni brevissimi, una vertigine da inizio a fine. Ben temperata, ma vertigine.
Si tratta di Bestezuelas, dell’autrice dominicana Kianny N. Antigua: un libro uscito nel 2021 per i portoricani Isla Negra Editores, specializzati in letteratura alternativa contemporanea dei Caraibi, e pubblicato in Italiano nel 2023, per le salernitane Edizioni Arcoiris, a cura e nella traduzione di Barbara Flak Stizzoli. Questo libro che avevo in mano, in copertina un triplice, tricipite, meraviglioso ritratto bianco e nero, opera di Giovanni Savino; un’introduzione attenta e delicata di Claudia Putzu, una preziosa nota della traduttrice, poco più di cento pagine e la strana e inconfondibile energia dei racconti perfetti: tante persone, eventi, stoffe, case, voci, corpi, dialoghi. Storie di persone, di dolori e violenza, di illusioni; passaggi di una luce poetica abbagliante. Racconti di diversi generi, registri e stili e una profonda eleganza formale; diversità, vastità della scrittura. Tanto tempo dentro poco spazio uguale immenso spaziotempo.
Un’adolescente attende la notte, il sonno degli adulti di casa, in punta di piedi esce e va da un uomo adulto e sarà sesso, saranno lividi, sarà lo spalancarsi del tempo nel futuro: il racconto “Di piatti e di persiane” ha questo incipit, in carattere corsivo, perché è il pensiero dell’adolescente: E se il sole è una stella chiamata Sole, come si chiama la luna? La luna è una luna chiamata Luna? La luna non ha un nome?
Due uomini istruiti, in età, che parlano di letteratura mentre bevono e con loro c’è un uomo più giovane che interviene e proprio non capisce, c’è un fitto ricamo metaletterario su quel tessuto di humour irresistibile che è “Attivati e illustri”, un racconto di puro dialogo, solo dialogo, un racconto cui devo risate vere, e molte, e infrequenti.
Un racconto dell’orrore, perfetto e spietato, “Dietro la tenda”. Il tempo breve di “Espulsi dal paradiso”, una donna in un motel con un uomo sposato, lei è la sua amante e sua è la voce che racconta, il testo dura il tempo del sesso – tempo breve, come dicevo – e una macchia di umidità disegna sul soffitto un crisantemo grigio.
Magdalena dipinge nel suo appartamento pieno di scatole mentre attende l’alba, l’alba dello sfratto, dipinge su una tela color sale, dipinge di notte e sappiamo ciò che dipinge e tutti i suoi colori e tutti gli indumenti che si toglie mentre dipinge in trance, in catarsi, prima che arrivi l’ufficiale dello sfratto, il sovrintendente, il prodigio (“Trasloco”).
Un racconto che dura anni, ma che leggi in pochi istanti dentro una vita: che ha una voce narrante in incipit e in chiusa ma consiste quasi interamente di brani di interviste, persone che hanno vissuto in sette fondamentaliste e raccontano violenze e manipolazioni e sopraffazioni, che sono riuscite a scappare, che riferiscono il vuoto e la solitudine del mondo visto come è, quando torni nel mondo fuori, che decidono di non tacere più e di aiutare chi riesce a fuggire e non ha idea di come vivere: “Io mi accontento di essere anatema”, dice una di loro, mentre la voce narrante di “Apostata” dice: “Non potevo più gestire così tanti dèi e profeti, così tante bestie”.
Potrei continuare ancora, a raccontare questi racconti, ché anche il metaracconto è un prodigio, minore ma stranamente espansivo, della narrativa breve. Potrei dirvi dell’onnipresente, multiforme scenario dominicano e caraibico. Dei nomi scelti, delle citazioni. Invece preferisco fermarmi qui, alle bestie nominate in “Apostata”. Al titolo della raccolta.
Non solo ho avuto bisogno di tornare a Bestie di Federigo Tozzi, leggendo Bestiole, ma a lungo ho avuto in mente lo sguardo degli animali e degli umani che guardano gli animali. È più di un mese che leggo queste Bestiole. Ne ho avuto, di tempo. Bestiole, come giustamente afferma Claudia Putzu nell’introduzione, non è un bestiario, non mostra mai i suoi personaggi come bestie, anche se la bestialità umana, violenta o subdola, spaventata o ferita, vi è presente sempre. L’epifania bestiale non è mai apologo. E bestiola è anche il fato, come annota Barbara Stizzoli nel suo contributo in chiusa del libro, sottolineando come la voce di Kianny Antigua non sia mai giudice dei personaggi: bestiola è l’ombra, il gemello selvaggio in ognuno di noi, lo specchio in cui affonda la visione. Specchio labirintico di cui scrive Antigua in quel fantastico ologramma ferroviario e metaletterario che è “Il terrore [Lato B]”: “Come si riscatta il passato di un personaggio di cui non hai mai scritto? Come si separa il narratore in prima persona dalla persona che narra? Come si può essere dipendenti da una droga che non si è mai provata?”.
Ho un po’ cercato ma no, non ho trovato il passo in cui John Berger scrive di scarso margine di manovra e alta posta in gioco, e chissà se lo ritroverò più; in compenso ho riletto questo passo, a pagina 26 di John Berger, Perché guardiamo gli animali?, Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, cura e traduzione di Maria Nadotti, Il Saggiatore, Milano 2016: dice di un mondo antico ormai perduto, che con le Bestiole di Antigua mi risuona, per cui mi piace riportarlo qui:
“Gli animali facevano da intermediari tra l’uomo e le sue origini, perché erano simili a lui e allo stesso tempo erano diversi. Gli animali venivano da oltre orizzonte. Erano a casa laggiù e qui. Allo stesso modo, erano mortali e immortali”.
Silvia Tebaldi