Con l’antologia Domino e bambole in fondo al mare pubblicata da Edizioni Arcoiris nel 2020, Danilo Manera porta per la prima volta in Italia dodici voci letterarie dalla Repubblica Dominicana. La raccolta si compone di ventiquattro racconti, due per ogni autore, la cui traduzione è stata curata dallo stesso Manera e da altre sette traduttrici, Elisa Travazzi, Grazia Testa, Elisa Visconti, Francesca Sammarco, Alessia Marmonti, Barbara Minesso e Barbara Stizzoli.
Domino e bambole in fondo al mare trascina il lettore in un mondo che, come scriveva Bolaño ne I detective selvaggi, “a rischio di sembrare sdolcinata, mi azzarderei a definire meraviglioso”. Ogni voce contenuta all’interno di queste pagine ha le sue peculiarità e sorprende il lettore con la sua innegabile intensità.
Attraverso le sue scelte, Danilo Manera porta in Italia un mosaico letterario estremamente variegato, che altro non è che il riflesso delle mille sfaccettature di una terra che, purtroppo, una volta andati oltre l’immagine del paradiso tropicale, la bachata e le granite, conosciamo ben poco.
Dal punto di vista letterario, come è spiegato nella postfazione, la letteratura dominicana negli ultimi anni ha visto una rifioritura grazie ai sussidi del governo, che si sono tradotti nella diffusione di laboratori di scrittura e iniziative finalizzate alla pubblicazione di nuovi autori, che hanno visto la collaborazione di vari enti. Questa letteratura mostra una particolare predilezione per il racconto, genere che in Repubblica Dominicana si è visto rappresentato da numerosi autori; in questa raccolta, troviamo le voci di ieri, degli anni Sessanta, come Manuel Llibre Otero, José Acosta, Aurora Arias, Emilia Pereyra, Maximo Vega, Pedro Antonio Valdez, accompagnati dagli autori di oggi, come Ariadna Vásquez Germán, Reynolds Andújar, Kianny Antigua, Rosa Silverio e le promesse di domani come Sandra Tavárez e Belié Beltrán: seppur estremamente diversi, i racconti presenti in questa antologia hanno una cosa in comune, la grande qualità che li contraddistingue.
Nel corso di queste pagine, camminerete insieme a Manuel Llibre Otero e gli amici di Martín, che trasporteranno la sua marimba blu (strumento musicale tipico della Rep. Dominicana) fino alla sua tomba, dove pianteranno germogli di piselli, che rinasceranno in segno di una nuova vita, contemporaneamente sono un dono al defunto, nella speranza che non li perseguiti.
Vi siederete accanto a Aurora Arias, per assistere agli ultimi giorni di vita di Lupe, una giovane donna ammaliata dal suono della salsa e ingannata dalle parole d’amore di un compagno anaffettivo e bugiardo, che l’ha abbandonata al suo dolore.
Sorriderete con l’assurda richiesta della protagonista del racconto di Emilia Pereyra, che tanto somiglia alla parabola dell’uomo che voleva cambiare croce, ma la narrazione non avrà in questo caso lieto fine.
Grazie a Kianny Antigua ascolterete le parole di un carcerato che si addormenta quando Andrés gli legge il giornale, sognando un sentiero buio con solo una foglia verde, chissà una speranza che non voleva in alcun modo uccidere e la ritrova nel bacio del suo compagno di cella.
Resterete ammaliati dalla scrittura di Reynolds Andújar e dalla sua penna estremamente travolgente che, nei due racconti scelti, sa di passione, ma sa anche di addio e tanto altro ancora. Effettivamente, però, cosa unisce queste storie?
Manuel Llibre Otero scrive nel suo “Marimba blu”: “Il senso della vita sarà una gran menzogna, se non rendiamo credibile il nostro dramma”. Sulla scia di queste parole, il vero filo conduttore di questa raccolta si riduce proprio a questo, alla ricerca di questi scrittori di trovare figure di significato che gli consentano di narrare delle storie in cui tutte le sensazioni, l’euforia, le paure, le incertezze, la rabbia e lo sconforto di questi personaggi siano ben visibili agli occhi del lettore, poiché, al netto delle vicende raccontate, che sono tra le più disparate, quello che rimarrà, una volta chiuso questo libro è il ricordo dello sguardo adottato dagli autori nell’osservare e nel narrare la psicologia di personaggi intrappolati in una realtà stantia, dove c’è un orologio che, come racconta Acosta, segna sempre la stessa ora. Sono storie intense, commoventi, alcune talmente assurde che sembra quasi si stia perdendo il controllo della lettura; ci sono racconti dalla sintassi lineare, altri che ti inghiottono in un vortice temporale a causa dell’assenza quasi totale della punteggiatura.
Il tutto si sviluppa in maniera trasversale a ciò che è forse l’unica cosa che queste storie hanno in comune, la ricerca di un legame con la propria terra, il che non si traduce necessariamente con menzioni dirette e precise, bensì con rievocazioni di paesaggi e luoghi che ne esaltano la bellezza e in altri casi, come nel racconto “Emoticons”, ne rivelano le difficoltà che si celano dietro l’immagine di un mare paradisiaco e delle maestose palme che si succedono sulle spiagge, descritte in maniera magistrale dalle parole di Tavárez, che subito spezza quest’aura idilliaca in maniera repentina e delicata, con la figura di un bambino che lucida le scarpe ai passanti per pochi spicci.
La partecipazione che richiede questa lettura è tanta, ma tanto è ciò che torna indietro al lettore, quando si confronta con delle parole così cariche di senso, che narrano quelle inquietudini che come relitti si depositano sotto la superfice dell’oceano. Mi sento davvero grata, per aver avuto la possibilità di avvicinarmi a questa letteratura che – faccio mea culpa – avevo sempre osservato a distanza; parallelamente, mi sento grata per il fatto che tanti altri lettori potranno appassionarsi a queste lettere, che spero di vedere in misura maggiore in Italia.
Claudia Putzu