Un corpo indica la fragilità del potere. Un corpo, quando è una potenziale arma, destabilizza i sistemi, un apparato politico. Un corpo si fa strada tra impalcature, pilastri e rivestimenti in acciaio. Esplosione numero uno. Un corpo studia quale angolazione adottare per essere invincibile. Ali, turbine, fusoliere. Esplosione numero due. Non ci sono soggetti. Ci sono solo cittadini con appellativi. Esplosioni.
È in un viaggio aereo che Sara e Alex si incontrano. È l’11 settembre 2001. Lui è un uomo del Nord del mondo, lei una donna del Sud. Parlano due lingue diverse. In una lingua terza, probabilmente in inglese, parlano durante il viaggio poi in aeroporto: prima di salire su due aerei diversi, di tornare ciascuno nel proprio Paese, si scambiano dati e coordinate. Due ore dopo, la strage. L’assalto alle Torri Gemelle di New York. Per una manciata d’ore avremmo potuto trovarci nel bel mezzo di quella battaglia aerea.
Resteranno in contatto via mail (davanti al computer, un occhio senza palpebra che trasmette emozioni, notizie, fatti) e per telefono. Imparano, ciascuno, un po’ della lingua dell’altro: sappiamo che la lingua di Sara è lo spagnolo, e che Alex già lo stava studiando prima di incontrarla; quanto al resto non sappiamo nulla, quali nazioni, quali città, quali stati, e questo imprecisato è un imperduto, è il residuo prezioso di ogni cosa. E infatti, Alex e Sara comunicano in una terza lingua: stavolta una lingua nuova, che inventano loro stessi. La inventano nell’amore, nel desiderio, nella distanza – dagli antipodi di un mondo globalizzato, che si fa sempre più caotico.
È Geografia della lingua, dell’autrice cilena Andrea Jeftanovic. Un arco temporale che si dispiega tra 2001 e 2006, dall’attentato alle Torri Gemelle alle stragi di Madrid, Beslan e Londra – gli eventi che segnano lo sviluppo dell’intreccio. L’ampiezza spaziale grande quanto il mondo: i capitoli intitolati Nord-Sud, Nord, Sud, Centro-Linea dell’equatore, Occidente-Oriente, Sud-Sud. Pubblicato nel 2007 in Cile, poi in una nuova versione, illustrata da María José Tellería, nel 2023 in Argentina, Geografia della lingua esce ora in Italia, nella traduzione di Maria Cristina Secci, per la casa editrice indipendente Gran Vía.
Mai in questo libro c’è quell’aria ferma, stagnante, che spesso si respira nei romanzi d’amore, nella narrativa borghese contemporanea: romanzo intimo e politico, storia d’amore e di lingue, di desiderio e mondi, Geografia della lingua è una storia di tregua e di perdita, di geopolitica e di corpi.
Continuando a passare da una lingua all’altra abbiamo creato un linguaggio personale, una terza lingua: assenza di punteggiatura, proliferazione di neologismi, termini mescolati, maiuscole capricciose. Una lingua al di fuori della violenza del mondo, uno spazio segreto che eluda la sorveglianza della polizia. Sappiamo che nella lingua madre si dice la verità. In una lingua straniera si mente. Quindi stabiliamo un punto intermedio. Transitare da una lingua all’altra.
Dopo molte mail e telefonate, Alex e Sara riusciranno infine a incontrarsi. Sara viaggerà nel Paese di lui, un Nordeuropa non precisato (Abbandoniamo la rete, le connessioni, diventiamo reali. Guadagniamo l’istante, perdiamo l’attesa. Smantelliamo il mondo. Mi imbarco, sorvolo le Azzorre. Le tempie pulsano, il timpano è una membrana tesa che vibra. Non c’è tempo da perdere) in cui si stupirà del freddo, della pulizia delle strade, delle distanze tra le persone, e penserà La dispensa di Alex trabocca di cibo, e Temo che il suo amore per me svanirà quando scoprirà il mio passato di morti di fame. Più avanti sarà Alex a recarsi da lei, in un altrettanto imprecisato Sudamerica: Alex, viaggi. Ti imbarchi. Attraversi la linea dell’equatore per la prima volta. La metà del mondo. Atterri in questo emisfero. Cambi l’inverno secco del Nord con l’estate appiccicosa del Sud. I cristalli di brina sul tuo collo si trasformano in gocce di sudore estivo. Vorrei nascondere la spazzatura, i detriti per strada, le abitazioni precarie attorno ai viali.
Si incontrano ogni tre o quattro mesi. Sono viaggi sempre più faticosi, costosi, l’Occidente è scosso dal terrorismo, il prezzo del petrolio aumenta, oscilla, scandisce lo sviluppo del racconto. E a raccontare sono entrambi, sono due voci in prima persona – la prima persona di Alex, la prima persona di Sara, due voci in prima che si alternano (è unione?, è intersezione?), che si dislocano tra i luoghi e gli incontri, nel pulsare frenetico del mondo: due voci che dicono il desiderio, gli amplessi, l’assenza. E dicono anche l’ambivalenza, la frazione di odio e di rabbia, di paura e rancore, l’ombra che sta nascosta in ogni amore. E nelle relazioni tra il Nord e il Sud.
Poi c’è una voce in terza, imprecisata quanto il Sud e il Nord, una voce che sa tutto ma quasi sembra stupirsi, e che guarda come un occhio remoto; una strana voce che riassume e domanda, che scorcia e che amplifica. I passeggeri Alex e Sara vivono dentro questa parentesi, mentre gli emisferi si tendono. Viaggiano malgrado lo scenario apocalittico previsto dagli analisti internazionali. Viaggiano con il corpo sempre più leggero e tornano con il bagaglio pesante. Viaggiano per dosare il proprio desiderio in porzioni di cinque, sette, dieci giorni.
Poi viaggeranno assieme, in un luogo scelto da entrambi e ignoto a entrambi; poi torneranno a sud, sempre più a sud. Da lettrice anziana, quale sono, non farò quello che si dice spoiler; né tenterò di imitare quella voce, quella strana voce in terza. Dirò solo che Geografia della lingua si legge in due ore, forse tre – è un romanzo breve – ma la memoria lo trattiene in modo strano, come una voce in prima persona, una voce che parla, e persiste dentro di noi quello stile asciutto, dalle frasi brevi, incalzanti, quella voce poetica ma tutt’altro che lirica, remotissima da elegia e nostalgia: persiste e ci ricorda che tutte abbiamo amato, e mentito, con le lingue che ci sono state date; e che il linguaggio – come ha detto così spesso Roland Barthes – è il luogo in cui ci si inganna. La lingua è mobile, come le labbra, le mascelle, il palato molle e le corde vocali. Sono fissi i denti, gli alveoli e il palato duro. I suoni vengono prodotti quando le labbra entrano in contatto. Oppure le labbra e i denti. O la lingua e il palato. O la lingua e i denti. Il linguaggio è un insieme di suoni casuali, di centinaia di lingue che battono sul palato. Sappiamo che nella lingua madre si dice la verità. In una lingua straniera si mente.
Libro di politica e d’amore, Geografia della lingua ci proietta nel ricordo, ma è tutt’altro che un’elegia; ci affonda nel linguaggio – la lingua come organo erotico e come mollusco inefficace – ma è tutt’altro che un gioco metanarrativo; e mi appare, ora, come un trattato sulle pause, sulle interruzioni e le fratture, e sul coesistere di microcosmi e macrocosmo. E se è il linguaggio il luogo in cui ci si inganna, è il corpo – il corpo senziente – il luogo che non mente mai, e questo è un libro di corpi che desiderano, che godono, che si ammalano. Tutte le lingue diventano una sola quando si chiama per decretare la sentenza.
Questo romanzo è una storia e molte storie, più esattamente è un flusso di storie. E verso la fine, quando l’arco narrativo sta per chiudersi mentre il mondo va avanti nell’entropia, nell’iniquità, nella violenza, la narrazione non si interrompe senza prima assumere la dimensione del narrato: Perché se cerchi Vienna a Istanbul, Tokyo a Madrid, Budapest a Lima; se cerchi Kabul a Zurigo, Baghdad a Parigi, Sarajevo a Gerusalemme, troverai la frazione bellica, il rovescio della cucitura Occidente/Oriente.
Un flusso di storie, dunque, di connessioni globali. In ciò si rifrange, non so come o perché ma lo sento, la luce delle parole di Anna L. Tsing in quel libro incredibile che è Il fungo alla fine del mondo, dove è scritto che “un flusso di storie non può essere riassunto facilmente […]. L’attenzione è rivolta verso geografie e tempi interrotti. Interruzioni del genere suscitano altre storie”. Per quanto amaro, per quanto duro sia il mondo globalizzato, iniquo, schiacciato da un tallone di ferro di morente ferocia, per quanto ampio sia l’orrore ci sono sempre storie in grado di fare mondo, di guidarci oltre le passioni tristi. Di suscitare altre storie. In ciò, Geografia della lingua è un libro guaritore – un romanzo trasformativo.
Io sono tante cose disperse. Tanti Paesi, tante città. Filo di voce, lingua che cerca di separare le parole, metterle in fila, pronunciarle sillaba per sillaba, unendo frasi. Lingua morta, non la sua voce, ma un’altra, la voce dello straniero. La lingua scivola all’indietro, verso l’oscurità della gola.
Silvia Tebaldi













