La letteratura latinoamericana del Novecento ha assunto un ruolo centrale nella riflessione critica sulle dinamiche del potere politico, in particolare attraverso la rappresentazione della figura del dittatore. In un continente attraversato da colpi di Stato, caudillismi, regimi autoritari e repressioni militari, gli scrittori si sono confrontati con la realtà del potere assoluto non solo come fatto storico, ma come esperienza esistenziale, linguistica e culturale. Ne è nato un vero e proprio sottogenere, la cosiddetta novela del dictador, che mette in scena figure tiranniche reali o immaginarie, ispirate spesso a dittatori storici come Juan Manuel de Rosas, Rafael Trujillo, Porfirio Díaz o Anastasio Somoza, e le analizza da prospettive letterarie, psicologiche e simboliche. Questi romanzi, che combinano l’invenzione narrativa con l’analisi politica e sociologica, offrono un ritratto profondo della corruzione del potere, della manipolazione del linguaggio e del trauma lasciato nei popoli da anni di oppressione.
Uno dei primi esempi significativi di questa tradizione è Il signor presidente (1946) di Miguel Ángel Asturias (Fahrenheit 451, traduzione di Raul Schenardi), ambientato in un Paese senza nome ma ispirato al Guatemala sotto il governo di Manuel Estrada Cabrera. La narrazione si struttura come un’allegoria oscura e claustrofobica, in cui l’autorità è onnipresente, l’arbitrarietà della giustizia è assoluta e il terrore è uno strumento quotidiano di controllo. La lingua stessa si deforma per riflettere l’assurdità del potere, anticipando elementi del realismo magico e dell’espressionismo.
A questa opera fa eco Io il Supremo (1974) di Augusto Roa Bastos (Feltrinelli), che presenta un monologo immaginario del dittatore paraguaiano José Gaspar Rodríguez de Francia. Il romanzo, complesso e metanarrativo, riflette non solo sul potere politico ma anche sulla scrittura come forma di potere: il Supremo si confronta continuamente con testi, decreti, falsificazioni e memorie, mostrando che l’autorità si fonda anche sul controllo della verità e della parola.
Simile per intensità e stile sperimentale è L’autunno del patriarca (1975) di Gabriel García Márquez (Mondadori, traduzione di Enrico Cicogna), dove un dittatore senza nome e senza tempo concentra in sé tutte le caratteristiche del tiranno latinoamericano. Con una prosa fluviale, senza punti né respiro, Márquez costruisce un personaggio che è insieme patetico e mostruoso, vittima della sua stessa onnipotenza, prigioniero in un palazzo decadente che riflette la rovina morale del potere assoluto.
In una direzione più storicamente documentata si muove La festa del caprone (2000) di Mario Vargas Llosa (Einaudi, traduzione di Glauco Felici), che affronta la dittatura di Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica Dominicana. Il romanzo intreccia più piani temporali e punti di vista per raccontare non solo la brutalità del regime, ma anche il modo in cui esso ha infiltrato le vite private, i corpi, le relazioni familiari e l’identità nazionale. La ricostruzione storica si fonde con l’analisi psicologica, e mostra come il dittatore non sia solo un individuo, ma anche un sistema che produce consenso, paura e complicità.
Questi romanzi non sono semplici denunce: sono opere complesse, dove la letteratura diventa il luogo in cui interrogare le radici del potere, il suo linguaggio e i suoi miti. La figura del dittatore diventa così emblema di una più ampia riflessione sul destino dell’America Latina, sui cicli di autoritarismo e liberazione, e sulla capacità della parola letteraria di resistere alla censura, alla paura e all’oblio. Attraverso la novela del dictador, la narrativa latinoamericana ha saputo trasformare la tragedia della storia in una forma potente di memoria culturale e di esercizio critico, dimostrando che il romanzo può essere allo stesso tempo arte, testimonianza e atto di resistenza. In conclusione, la presenza ricorrente del dittatore nella letteratura ispanoamericana non è casuale: essa risponde a una necessità storica e poetica di comprendere e smascherare i meccanismi dell’oppressione, e testimonia l’impegno degli scrittori nel fare della parola scritta uno strumento di liberazione intellettuale. In un continente spesso tradito dalle sue classi dirigenti, la letteratura si è fatta coscienza critica, capace di dare voce ai silenzi imposti e di conservare, nel tempo, la memoria dei soprusi e la speranza di una giustizia ancora possibile.













