C’è nella guerra una miseria umana che non cambia, qualcosa che intaglia le anime degli uomini tutti allo stesso modo, quando questi imbracciano un fucile.
Cuba. Tra il 1960 e il 1967, ai piedi della Sierra dell’Escambray, fu combattuta, dalle forze repressive dell’esercito cubano contro una frazione controrivoluzionaria, una guerra civile mai classificata come tale, bensì nominata testardamente dal governo di Castro, “lucha contra bandidos”.
Nella raccolta di venticinque racconti, I condannati dell’Escambray – la traduzione è quella originale del 1970 edita Einaudi, a cura di Laura Gonsalez del Castillo, rivista e migliorata da Giulia Di Filippo, a ottobre 2023 pubblicata in una nuova edizione, dalla neonata Ago Edizioni che ha mantenuto il risvolto di copertina di Italo Calvino – Norberto Fuentes, al tempo corrispondente dal fronte, riconsegna a chi legge un affresco letterario di quegli anni, attraverso il ritratto dei personaggi, dei cui contorni solo la sua immaginazione è responsabile; di contro vi è una scrittura incisiva, vivida, possibile solo per chi come lui aveva toccato con mano quegli uomini e quelle morti, esistenze racchiuse in storie apparentemente separate tra loro, ma inglobate nelle descrizioni dei luoghi che della sorte di giovani, contadini, non per scelta soldati, restano gli unici testimoni.
Alberi secolari, campi coltivati, un sole alto, cocente, e le strade sterrate: sono queste immagini ad aprire la raccolta, queste a chiuderla e a restituire una circolarità all’intero libro, di fatto un romanzo di racconti che procede per sottrazione, eliminando i contorni, ogni elemento superfluo, a favore di una sequenza rapida, scandita dal rumore continuo dei proiettili in lontananza; il cui tempo rallenta quando sul muro un anziano militante aspetta di essere ucciso; si ferma nel momento in cui le madri salutano quei figli diretti verso una lotta che non erano pronti ad affrontare o durante un arresto, principio di un viaggio senza ritorno.
Nelle ultime righe della nota introduttiva, si assiste a un rovesciamento fortemente evocativo, forse non voluto, ma impossibile da ignorare e che richiama le cronache risalenti al primo approdo dei coloni in terra americana; al racconto dello stesso Colombo che puntò il dito verso le prime isole avvistate dall’albero maestro della sua nave ammiraglia e le nominò: dare un nome affinché un qualcosa inizi a esistere. La letteratura latinoamericana ci ha ragionato molto su questo aspetto, tant’è che vi è una scena analoga nell’ottantatreesima pagina del grande capolavoro di Márquez (che aiutò l’autore ad arrivare e rifugiarsi negli Stati Uniti, per sfuggire alle persecuzioni del regime) Cent’anni di solitudine. In Fuentes, nominare le cose è il passo precedente alla loro estinzione: nominavo le cose per l’ultima volta, non per crearle, ma per testimoniarne l’estinzione. In qualche modo è stato proprio questo il destino del mio libro: essere un lampo, uno scoppio di luce e rumore che subito si estingue.
Uno scoppio di luce e rumore che si infrange contro le parole mai pronunciate, inesatte; contro la terminologia per definire gli orrori avvenuti nella cornice del lussureggiante erbario e bestiario dei Tropici, tra gli amuleti e le invocazioni dei culti popolari afrocubani (Calvino) frutto di una qualunque assemblea di governo che ha decretato storicamente «la sorte semantica dei ribelli dell’Escambray».
Parole contro parole per riconsegnare una contro-narrazione a partire dalle ceneri di ciò che resta, per rimettere insieme i tasselli di ciò che è stato: dalla struttura delle case costruite con materiali di scarto, in cui si nascondevano i dissidenti esattamente come i topi si rannicchiavano sui tetti improvvisati con della paglia per precipitare, poi, nelle fiamme accese dalle scariche degli AK-47, ai tratti dei volti di persone che forse avevano dei desideri, animate dalle speranze per il futuro, forti degli ideali per i quali hanno combattuto, infine protagonisti di una pagina censurata dall’oleografia ufficiale.
Ma se il lampo della Storia dell’esperienza rivoluzionaria andata incontro a pratiche di mistificazione che offrono a una generazione – la nostra – un resoconto incompleto delle dinamiche che hanno segnato un Paese allora e per sempre l’ha cancellata, che la Letteratura sia quello squarcio di luce a rompere le tenebre dell’oblio in cui la loro memoria è stata bandita e che li ha resi spettri di sogni infranti, i cui frammenti ancora lacerano il corpo di Cuba e della sua gente.
Claudia Putzu