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Il cuculo fa covare le sue uova ad altre specie, deponendole in nidi dove è presente almeno un altro uovo. […] Per me, la cosa più sconcertante era vedere che quelle femmine avvertivano l’impulso biologico di riprodursi e al tempo stesso una necessità altrettanto forte di sottrarsi alle fatiche dell’allevamento”. «Credi che questi uccelli abbiano nostalgia dei loro figli?». […] «Io sono più intrigata dagli uccelli che subiscono il parassitismo. Fatico a credere che non si accorgano di niente. Secondo me sanno che quelli non sono i loro piccoli, ma li curano e li assistono lo stesso. Penso che a un certo punto tutte noi madri ci rendiamo conto di questa cosa: abbiamo i figli che abbiamo, non quelli che immaginavamo o quelli che ci sarebbe piaciuto avere, ed è con loro che dobbiamo fare i conti».

guadalupe nettelA questo dialogo che si svolge tra Laura, la sua protagonista, e Mónica, un personaggio secondario, riguardo il fenomeno noto come parassitismo di cova, Guadalupe Nettel affida quella che è forse la riflessione chiave del suo romanzo La figlia unica (La Nuova Frontiera, 2020), anche se è difficile individuare un tema principale in una storia tanto densa di spunti. Singolarmente sintetica nello stile, la scrittrice messicana ha al suo attivo due romanzi precedenti (Il corpo in cui sono nata, Einaudi, 2014, Quando finisce l’inverno, Einaudi, 2016) e due raccolte di racconti (Bestiario sentimentale, La Nuova Frontiera, 2018, Petali e altri racconti scomodi, La Nuova Frontiera, 2019). Proprio nei racconti, perturbanti e al limite del realismo magico, si ritrovano già i parallelismi tra gli esseri umani e altre specie animali, ma pure vegetali, di cui l’autrice si avvale in questo suo ultimo lavoro. A differenza dei racconti, però, la vicenda che dà il titolo a La figlia unica è tratta da una storia vera vissuta da un’amica della scrittrice, che le ha dato il permesso di raccontarla. La prima scelta originale della Nettel è affidare la narrazione di una maternità a una protagonista che non ha mai desiderato figli e, anzi, ha deciso di farsi legare le tube poco tempo prima che la gravidanza della sua amica Alina, al centro della trama, abbia inizio. I motivi di Laura per non voler essere madre travalicano il personale per sconfinare in riflessioni sulla condizione femminile: “La società è progettata in modo tale che siamo noi, e non gli uomini, a prenderci cura dei figli, e spesso questo implica il sacrificio della carriera, delle attività solitarie, dell’erotismo e a volte della coppia”; “Quando restavo a Parigi, dedicavo molte ore a leggere in biblioteca, ad andare a teatro, a frequentare bar o locali notturni. Nessuna di queste cose è compatibile con la maternità. […] Perciò, ogni volta che le cose cominciavano a farsi serie con un uomo, gli spiegavo che con me non avrebbe mai potuto riprodursi. Se si metteva a discutere o lasciava trapelare un qualche indizio di tristezza o di dissenso sul volto, mi appellavo immediatamente alla sovrappopolazione della Terra, motivazione forte e abbastanza umanitaria da non indurlo a tacciarmi di essere frustrata o peggio ancora egoista, come in genere siamo definite noi che abbiamo deciso di sottrarci al ruolo storico del nostro sesso. A differenza della generazione di mia madre, che considerava aberrante l’idea di non avere figli, molte donne della mia hanno deciso di astenersi. Le mie amiche, per esempio, si potevano dividere in gruppi altrettanto numerosi: quelle che contemplavano la possibilità di abdicare alla loro libertà e di immolarsi sull’altare della conservazione della specie, e quelle disposte ad accettare lo stigma sociale e familiare pur di preservare la propria autonomia. Ciascuna categoria giustificava la propria posizione con solide argomentazioni. Com’è naturale, io mi intendevo meglio con le seconde. Alina era tra queste”.
Ma Alina cambia idea e comincia a desiderare con forza e a cercare una gravidanza, che finisce per arrivare e che, solo quando il termine è vicino, si scopre essere tutt’altro che ordinaria. L’anomalia genetica della bambina che sta per nascere si annuncia come niente di meno di una tragedia per i suoi genitori, in quanto i medici comunicano loro che la figlia, una volta venuta alla luce, non potrà vivere che poche ore. Dopo un mese speso, assieme al compagno Aurelio, a metabolizzare quanto sta accadendo con continui rivolgimenti emotivi e riflessioni, Alina partorisce Inés ed è subito chiaro che la piccola non ci pensa nemmeno a lasciare questo mondo. Da qui in poi, la vicenda prende una piega imprevedibile e pure incomprensibile per i medici, che non conoscono e non sanno dunque ben spiegarsi la sua condizione. Per Alina e Aurelio si tratta di un periodo in cui le aspettative non possono andare al di là di un giorno, anzi, di qualche ora, non è dato sapere se Inés sia destinata a morire improvvisamente oppure invece a vivere e magari fare dei progressi. Di nuovo, è a un dialogo tra Laura e l’amica Léa che viene affidato lo spunto per me più interessante: «In realtà viviamo tutti con questa minaccia. Non solo i nostri figli, ma anche noi potremmo scomparire in qualunque momento. La differenza è che per Alina è fin troppo chiaro. Magari dovrebbe dimenticarsene.», il che fa correre il pensiero di Laura alle suore di un monastero che, all’alba, cantavano di quanto la vita fosse effimera, “per loro era fondamentale non dimenticarlo mai”.

La narrazione della storia della nascita e della crescita di Inés si intreccia con quella dell’incontro di Laura coi suoi vicini di casa, il bambino Nicolás e sua madre Doris, e del rapporto di crescente intensità che crea con loro. Il padre di Nicolás è morto lasciandogli in eredità un’attitudine maschilista, violenta e offensiva nei confronti della madre, che ha serie difficoltà a gestirlo. Laura fa amicizia dapprima col bambino e in seguito anche con Doris e comincia a prendersi cura di Nicolás, portandolo fuori e ospitandolo spesso a casa sua quando la madre non se la sente o non è in grado di accudirlo. Nei confronti di Laura, la violenza di Nicolás non si scatena mai. Qualcosa di analogo accade tra la tata di Inés, Marlene, e la piccola, cui si lega profondamente: “A differenza dei genitori, Marlene avrebbe potuto interrompere il suo rapporto con Inés quando avesse voluto, per sposarsi e avere i propri figli, per guardare i bambini di qualcun altro o per andare in Guatemala zaino in spalla. Grazie a tutto ciò poteva trasmettere alla bambina un amore tranquillo e disinteressato, l’amore lieve e insieme intenso di chi non è costretto a rimanere”. La messa in discussione della famiglia tradizionale, soprattutto della sua chiusura patologica rispetto all’esterno, è un altro argomento che sta molto a cuore all’autrice. Poco più avanti, infatti, fa dire a Mónica che: «Tra l’altro il legame di sangue non garantisce niente. Pensa che molto spesso sono i padri, i nonni e gli zii a picchiare e violentare i bambini. Le famiglie biologiche sono un’imposizione, ed è ora di desacralizzarle. Non c’è ragione di doversi adattare, se non funzionano. […] Immagina come sarebbe la nostra vita se tu e io, Aurelio, le nostre figlie e un paio di altri amici condividessimo una casa e la vita quotidiana. Di sicuro saremmo meno sfiniti».

Leggendo La figlia unica, infine, ci si rende conto di quanto sia permeato da un discorso femminista ben poco ideologico e molto pragmatico. Se alla base delle motivazioni iniziali di Laura per non voler essere madre c’è la serena constatazione che, nella nostra società, finirebbe per perdere molta della libertà a cui tiene e non poter vivere come le piace, in seguito quei legami familiari non di sangue che si rivelano salvifici per le vite dei personaggi vengono instaurati e mantenuti quasi esclusivamente da donne. Anche Laura e sua madre, che in passato non ha mai capito davvero le sue scelte, finiscono per riavvicinarsi grazie all’incontro con un’associazione femminista con cui entrambe finiscono, in modi diversi, per interagire. È in questo modo che queste donne si oppongono e creano un’alternativa al retaggio patriarcale che pure è ovunque intorno a loro e di cui è così difficile liberarsi, come nel caso del padre di Nicolás che, pur non essendo più in vita, si è lasciato dietro una scia di violenza e abusi che ancora tormenta quel che rimane della sua famiglia. L’impressione che si ha alla fine del libro è che le sue protagoniste abbiano trovato un senso scoprendo che cosa sono capaci di fare concretamente le une per le altre.

Caterina Iofrida

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