“L’invasione” (edito in Italia da Sur, traduzione di Enrico Leon) è una raccolta di quindici racconti: i primi dieci, pubblicati nel 1967, sono l’esordio di Ricardo Piglia, scrittore argentino allora ventisettenne, gli ultimi cinque sono stati stati aggiunti dall’autore nel 2006, in occasione della nuova uscita. Un filo lungo quarant’anni, spiegato così da Piglia in prefazione: “non ci trovo troppe differenze con i libri che ho scritto in seguito”. Un’affermazione che è un manifesto, una dichiarazione di intenti, insieme alla cristallina citazione di Roberto Arlt in esergo: “A noi è toccata la missione di assistere al crepuscolo della pietà”. Pietà, quindi, o meglio assenza di pietà, e ridimensionamento dell’ego in un’idea di scrittura che assomiglia a una confessione, e che con il registro della confessione spesso gioca dipanando nastri, materiale inquisitorio, documentazione storica.
I personaggi creati da Piglia ci parlano da luoghi bui, infestati: celle, camere d’albergo, cupi laboratori d’oreficeria nei quali fermentano come in una camera oscura pensieri ossessivi, sogni, rimorsi; atti mancati e persone perdute, mentre la città di Buenos Aires irrompe come un altrove straniante. Notturna o alle porte dell’alba, gonfia di gente e mezzi di trasporto; un rosario di nomi di piazze e di vie che fa da eco al costante silenzio di un’umanità spogliata di tutto.
Totalmente declinate al maschile, sono storie in cui le donne vengono soltanto evocate, simili a ballerine di tango. Animali nudi e silenziosi che si dissolvono alla luce del sole. Come Luciana (“Tenera è la notte”), che balla ubriaca e dei suoi uomini “afferra il polso, non la mano, ma il polso, come se fosse lo schienale di una sedia”. Femmine che sono ossessioni, oppure non sono niente: donne-ponte, anonime fidanzate che offrono una sicurezza che intorpidisce lo spirito, che “è come uscire dal cinema”, che è come “una stanza comoda, una stanza da bagno”.
Anche al sesso, ai corpi, Piglia riserva lo stesso destino. Che siano spiati dal buco di una serratura (“Pomeriggio d’amore”) oppure irrompano in maniera brutale nell’intimità dei personaggi (“L’invasione”) ci rimane sempre il dubbio di averli visti davvero: allucinazioni, più che desideri di carne.
Soltanto l’acqua sembra resistere a questo costante lavorio di sottrazione del reale. In uno degli ultimi racconti, “A novembre”, l’autore argentino mette in scena una lunga nuotata verso il relitto di una nave, la Navarchos, affondata a Mar del Plata, di fronte a Playa Grande, il 20 ottobre del 1964. È una giornata di sole ma al largo, sopra al relitto, si muovono le prime nuvole di tempesta e “la corrente, scura e greve, si distingue nel chiarore dell’acqua come se fosse un’animale sommerso.” Ma il nuotatore non si lascia intimorire. Si ferma “al bordo dell’acqua; […] non ci sono ombre sulla sabbia”.
“In lontananza ci sono i gabbiani che volano leggeri nell’aria; in basso c’è un abisso, che perdura da prima che esistesse la terra. Abbiamo il ricordo di quest’immensità e per questo siamo felici in mare e angosciati in terra. Entrando nell’oceano, perdiamo il linguaggio. Esistono solo il corpo, il ritmo delle bracciate e lo splendore del giorno. Mentre nuotiamo non pensiamo a nulla”.
Livia Del Gaudio