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Quando finisce l’inverno, Guadalupe Nettel

Sommario

Quando finisce l’inverno (Einaudi, 2016, traduzione di Federica Niola) è il secondo romanzo di Guadalupe Nettel; il primo è Il corpo in cui sono nata, Einaudi, 2014, mentre in seguito sono venute le raccolte di racconti Bestiario sentimentale, 2018, e Petali e altri racconti scomodi, 2019, infine il suo ultimo romanzo La figlia unica, 2020, tutti e tre editi da La Nuova Frontiera.
p 1“Esseri imperfetti che vivono in un mondo imperfetto, siamo condannati a trovare solo briciole di felicità. (Julio Ramón Ribeyro, La tentación del fracaso)” è una citazione che troviamo in una delle ultime pagine del romanzo, ma anche in epigrafe a Petali e altri racconti scomodi; a chi ha familiarità con questa scrittrice sembrerà credo, come sembra a me, uno dei concetti alla base di entrambe le opere. Quando finisce l’inverno è una narrazione a due voci, quelle di Cecilia e Claudio, due narratori in prima persona tutt’altro che affidabili, specie lui; oltre il racconto asciutto e poco incline a sentimentalismi che fanno delle proprie storie, parzialmente sovrapposte, è immediato percepire una realtà cupa e drammatica. Patologica, pure, o almeno è questa la parola che alla lettura di molti passaggi mi è passata per la mente; si tratta di un’impressione personale, in quanto l’autrice è sempre ben attenta a lasciare gran parte dell’interpretazione a chi legge. “La cortesia può essere una porta verso l’intimità”, ad esempio, un concetto affermato da Claudio nel corso di una riflessione su quanto vorrebbe ricambiare la gentilezza che ammira negli altri esseri umani, ma che considera troppo pericolosa per sé, è una frase che dice molto del personaggio e al contempo lo lascia libero dal giudizio. Chi può dire di non aver mai condiviso questo pensiero, almeno in una certa misura? Nondimeno, all’idea di empatizzare con quest’uomo ordinato e metodico, collezionista di vinili “senza i quali la mia vita sarebbe sbiadita e insipida”, che vive nell’Upper East Side in una casa senza finestre, ci si sente a disagio, sul filo del fastidio, per tutto il tempo, come quando afferma: “Una delle regole che mi impongo con le donne è di non sapere nulla della loro vita precedente. Questa cosa, di conseguenza, le tiene lontane dalla mia. In poche parole, la discrezione innalza una barriera che ai miei occhi è necessaria quanto l’igiene più elementare”. Questa intimità difficoltosa lo accomuna a Cecilia, la protagonista femminile, con la quale Claudio non ha poi molto altro a che spartire, se non un forte senso di vuoto, che a lui deriva dalla morte precoce di una fidanzata, a lei da una generale condizione di abbandono (da parte della madre e non solo); i due hanno in comune anche lo sradicamento dai paesi di origine, essendo lui cubano e lei messicana e vivendo rispettivamente a New York e a Parigi, elemento che contribuisce alla solitudine che caratterizza le loro vite.
“In diversi momenti della mia vita le tombe mi hanno protetto” è forse l’affermazione che più caratterizza Cecilia, la cui singolare affezione ai cimiteri la porterà a legarsi a un altro personaggio chiave, Tom, suo vicino di casa in un palazzo parigino le cui finestre danno sul Père Lachaise. Nel corso di un’assenza protratta di Tom, Cecilia si imbatte in Claudio a casa di amici e, per un paio di incontri, intervallati da una fitta corrispondenza, i due hanno una relazione, che funziona fino a che si svolge là: “Avevo sempre giocato in casa e lui in trasferta”. Una volta che Cecilia va a New York, infatti, come capita in certe relazioni a distanza, si trova davanti un Claudio più completo, con la sua amante Ruth – da lui denominata “la tardona” – che fino a quel momento aveva tenuto come in un compartimento stagno e con i suoi precisi rituali casalinghi. Al ritorno a Parigi, Cecilia ritrova Tom, oppresso da una malattia progressivamente sempre più invalidante, che i due vivranno assieme in un’esperienza totalizzante.
Una peculiarità di Cecilia e Claudio è una sorta di lucidità efficace quanto apparente: “A tu per tu con la lucidità implacabile che la caratterizza, senza nessuno che la protegga, che la guidi nel cammino doloroso che conosco così bene, nel cammino degli esseri come noi, incapaci di ingannare sé stessi”, dirà lui a proposito di lei, eppure nessuno dei due sembra pienamente consapevole del proprio malessere; che per lei sembra vicino a una profonda tristezza, con periodi di passività e abbandono quasi totali, nella quale si crogiola, per lui a una ricerca continua di controllo e distacco dai sentimenti umani, in mancanza dei quali sembra intravedere un abisso. Tuttavia, per questi due personaggi, il romanzo mi sembra tratteggiare un destino diverso: Claudio pare destinato a percorrere sempre le stesse strade, rimanere sempre protetto e uguale a sé stesso, a un certo punto resiste anche a un aiuto psichiatrico, consigliato dall’amico Mario, rifiutando dentro di sé, lui tanto ordinato, di identificare la propria sofferenza come “disordine” — così il suo ipotetico disturbo post-traumatico viene lasciato, credo volutamente, in traduzione. Cecilia attraversa invece un periodo terribile, in cui tocca il fondo ma sperimenta un vero affetto, e sembra poi intravedere una luce nuova quando, trovandosi a passeggiare in una piazza che sorge sopra un precedente cimitero, osserva con sollievo che: “Come la primavera segue all’inverno portandoci a scordarne la crudezza da un anno all’altro, ci saranno sempre bambini che giocano e corrono sopra i nostri morti”.

Caterina Iofrida

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