
L’angelo del crimine, diretto da Luis Ortega e presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, racconta la vera storia di Carlos Robledo Puch, il più celebre serial killer della storia argentina, responsabile negli anni Settanta di una lunga serie di rapine e omicidi.
Il film non sceglie la via del thriller convenzionale né del biopic giudiziario. Al contrario, Ortega costruisce un ritratto disturbante e magnetico del protagonista, interpretato con carisma glaciale da Lorenzo Ferro. Carlos è un ragazzo dai tratti angelici, quasi innocenti, che dietro l’aspetto delicato cela un’indifferenza assoluta verso la vita e la morte. È un personaggio che affascina e inquieta allo stesso tempo, privo di rimorso, mosso più da un istinto ludico che da una reale motivazione criminale.
La regia si muove tra estetica pop, atmosfere lisergiche e una colonna sonora anni ’70 che contrasta volutamente con la brutalità delle azioni messe in scena. Ortega non cerca la fedeltà storica in senso stretto, ma piuttosto la creazione di un mito oscuro, un’icona della violenza argentina di quegli anni. L’uso dei colori saturi, la fotografia brillante e l’eleganza formale generano un cortocircuito visivo che enfatizza la contraddizione tra l’apparente purezza del volto del protagonista e la ferocia dei suoi atti.
A spiccare è anche la dinamica con Ramón (Chino Darín), compagno di rapine e possibile alter ego, che funge da contrappeso alla leggerezza amorale di Carlos, pur rimanendo anch’egli invischiato in una spirale senza ritorno.
In definitiva, L’angelo del crimine è meno un film di cronaca nera e più una riflessione estetica e filosofica sul male: la violenza non come conseguenza di traumi o bisogni, ma come puro gesto, esercizio di potere e fascinazione. Ortega firma un’opera elegante e disturbante, che evita di giudicare ma costringe lo spettatore a confrontarsi con l’abisso di un volto che sorride mentre distrugge.













