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Traduzione di Claudia Putzu

 

Mi sveglio con la stessa pesantezza di ogni giorno. La voglia di restare immobile, di non aprire gli occhi, per non avere la conferma che la giornata è cominciata. Cerco dentro di me una ragione che mi spinga a scendere dal letto. Alla fine la trovo e mi alzo. Inizia la routine. Mi preparo: opto per una camicia bianca, un pantalone grigio e una cravatta verde. Perché verde? Non importa. Finisco di sistemarmi ed esco dalla camera. L’autista dello scuolabus ha suonato il clacson per la terza volta, sembra un avvertimento; i bambini corrono, noi rimaniamo a tavola. Bevo solo un caffè, poi me ne vado.

Giù in strada, respiro a fondo. Un altro giorno, un altro dollaro. Dove l’avrò sentito? Forse in un film nordamericano. A ogni modo, non è detto che per me si traduca in un altro dollaro o in un altro peso. Sto andando a un colloquio di lavoro, ragion per cui la cravatta verde mi mette a disagio. L’ufficio assunzioni non è lontano da qui, ci andrò camminando.

Al mio arrivo, il custode apre la porta. Lo saluto, ma la mia bocca non emette suono. Sono confuso. Avanzo comunque verso la receptionist. Il mio “buongiorno” non si sente. Lei sembra non notarlo. Mi domanda se sono quello dell’appuntamento delle otto; annuisco. Mi dà un modulo e mi indica una delle sedie in fondo per riempirlo. Seduto, fisso il foglio come un idiota. Una giovane viene a recuperarlo dopo qualche minuto. Vedendolo in bianco, con fare arrogante mi demolisce: «Signore, lei è sicuro di volersi candidare per questo posto?». Tentenno. Mi alzo in piedi e vado via.

Il sole mi colpisce in faccia con violenza. Inizio a vagare per le vie della città, cercando tra i passanti il suono della mia voce. Nel tardo pomeriggio rientro a casa, provo a raccontare alla mia famiglia quanto mi è successo. Uno sforzo inutile. Ognuno è nel proprio mondo. Mio fratello chatta al telefono con gli amici invisibili dall’Europa. I bambini litigano per un pastello a cera verde e la mamma è impegnata in cucina. Nessuno ha fatto caso al mio mutismo. Né all’esterno né in casa.

Il giorno dopo, ancora steso sul letto, inizio a contare come stessi provando un microfono: «Uno, uno, uno». Niente. Scendo in strada con un nuovo atteggiamento: prima o poi la mia famiglia noterà che ho smesso di parlare, fino ad allora mi godrò la mutezza. Cammino verso il parco, il silenzio mi aiuta a sentire meglio. Vedo degli studenti in marcia, recitano slogan e hanno con sé dei manifesti. Mi tornano in mente i miei tempi da studente, quando verbi come “rivendicare” avevano un senso orientato a favorire i più svantaggiati, e “intensificare” significava che non ci saremmo arresi, che avremmo combattuto fino alla fine. Come questi giovani, anche noi sbandieravamo manifesti mentre ripetevamo in coro i nostri reclami. Fino a che non ci intercettavano le guardie, che all’epoca chiamavamo “caschi neri”. Un giorno, correndo, raggiungemmo il cimitero. Li avevamo alle calcagna. Fu una fuga epica, saltavamo sulle tombe e loro facevano lo stesso. Alla fine la nostra giovane età, unita a un’adrenalina capace di contenere la paura, vinse sulla scarsa prestanza fisica degli agenti.

I ragazzi vanno avanti. Alcuni passanti si fermano per qualche secondo, poi proseguono per la loro strada. A dire il vero, nessuno sembra dargli importanza. Com’è probabile che nessuno abbia dato importanza a noi. Un brivido percorre il mio corpo. Nessuno mi ha mai dato importanza, per questo nessuno si è accorto che ho smesso di parlare.

Mi guardo intorno e mi concentro sui dettagli, le colombe davanti la chiesa, i lustrascarpe nel parco; e la velocità con cui tutti si dileguano, la maggior parte di loro è al telefono: salgono e scendono gradini, montano in macchina, guidano fino al lavoro. Sento due donne parlare di un nuovo insetto che ha causato la morte di molti cittadini. Vedo un pazzo frugare nella spazzatura e un signore che lo osserva da lontano. Vedo un’altra donna, piuttosto preoccupata, consultare un foglio che ha tirato fuori dalla borsa.

È un nuovo giorno e il mio orologio biologico mi avverte che è ora di alzarmi. La solita routine? Anche fosse, oggi c’è qualcosa di diverso, in casa c’è un silenzio totale. Saranno andati via tutti? Impossibile. Mi precipito fuori dalla camera. Sono lì che corrono avanti e indietro. Riesco a vedere il gesto dell’autista dello scuolabus che minaccia di lasciare qui i bambini. Ciò nonostante, non sento niente.

Il caffè è sul tavolo, lo bevo con calma, poi esco di casa. Lungo il tragitto, mi imbatto in una processione che va verso la chiesa, la supero per guardarla da una panchina del parco. Alle dieci del mattino, gli studenti urlano di nuovo gli slogan, ma ora non riesco a sentirli.

Vado in un fast food. È semplice: scelgo una delle offerte, indico quello che voglio e pago il prezzo scritto sul volantino. Il dipendente mi dà qualche informazione. Gli faccio segno che non riesco a capirlo quindi mi fa notare un avviso. Leggo: “A partire dalla prossima settimana, i prezzi saranno ricalcolati a causa delle nuove imposte”. Nulla da dire, penso.

Spunta il sole e mi rifiuto di scendere dal letto. Non so se hanno approvato la riforma fiscale; so solo che quell’insetto è arrivato da queste parti, ma a dire il vero non vedo fino a che punto possa interessarmi adesso. Non riesco a parlare, non riesco a sentire e, oggi, mi accorgo di star diventando persino… invisibile.

 

 

L’autrice

Sandra TavarezSandra Tavárez nasce a Santiago de los Caballeros nel 1970. Ha pubblicato Matemos a Laura (2010), Límite Invisible (2012) ed En tiempos de vino blanco (2016). I suoi racconti sono apparsi su varie riviste e antologie; in Italia nella raccolta Domino e bambole in fondo al mare. Racconti dominicani (Edizioni Arcoiris) curata da Danilo Manera.

Uccidiamo Laura (trad. Claudia Putzu, pref. di Raúl Zecca Castel, Edizioni Arcoiris) è la sua opera prima e la prima opera completa tradotta in italiano

 

 

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