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«Un gruppo di esploratori si è perso nella mia gola. Cercavano il dinosauro. Idioti: come se fosse ancora lì. Meglio se me ne vado a dormire». Arriva inavvertitamente, parte della sezione “Avventure”, questo testo che è un chiaro richiamo al celeberrimo rigo del maestro guatemalteco Augusto Monterosso, citato da Calvino nelle sue conferenze in America, da Umberto Eco e diventato l’emblema, quanto una stella polare, di una letteratura che si stava orientando verso la brevità.

alberto chimalA distanza di anni da quella pubblicazione e da quei circoli letterari, c’è un progetto editoriale italiano “dirottato a margine” che sta attuando una ricerca letteraria che sceglie come campo privilegiato la forma brevissima: è la collana Glossa, diretta da Carlo Sperduti ed edita da pièdimosca edizioni, la cui ultima pubblicazione porta la firma dell’autore messicano Alberto Chimal:  si parla di 83 romanzi, raccolta tradotta dal sempre impeccabile Loris Tassi, con la quale si lancia in un’avventura letteraria in cui porta con sé la sua capacità di narrare mondi e accoglie la sfida di condensare tali narrazioni in uno spazio di esistenza che non supera il numero di caratteri imposti da un tweet, che in un quadro più ampio rappresenta l’ultima frontiera di un genere, la microfinzione, mai uguale a sé stesso, in grado di viaggiare da un medium all’altro e frequentato in America Latina.

Soffermandoci sulla letteratura di questa regione del mondo, come letture di certo più autorevoli hanno esposto, si potrebbe parlare di microfinzione come una rottura con un canone letterario imposto e preesistente. Si potrebbe pensare a quella fase della letteratura ispanoamericana, in cui echeggiavano le parole di un poeta semi-cieco, la cui vista si avviava progressivamente verso il tramonto, per le quali il romanzo e la sua prolissità erano una forma di avventura sedentaria, per chi non poteva (o non ne aveva il coraggio) condurne una vera; il tutto considerando un panorama culturale che non era mai stato estraneo – a differenza di una controparte oltreoceano – al genere del racconto breve, di cui la microfinzione potrebbe essere un’evoluzione, una contrazione, una forma di sperimentazione che è confluita poi in un’entità a sé stante.

Ma non è questa la sede per condurre l’ennesima analisi; restano le parole di Roland Barthes, che in Frammenti di un discorso amoroso scrive di un «guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo (per l’illimitata espansione dell’io, per la sommersione emotiva) e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiattito l’amore)».

Parole che ci riportano all’elemento principale, il linguaggio, per il quale si potrebbe provare ad attribuire a tale genere una base antropologica che rimanda alle culture a oralità primaria, il cui sapere concreto e vicino all’esperienza umana non è conservato in forma scritta e si affida il tramandarlo alla memoria, sistema omeostatico per cui si prevede l’eliminazione dell’inutile, il che sottintende un’accurata scelta delle parole da usare,  ragionamento che si avvicina a quanto detto da colui che è stato il primo teorico della microfinzione come genere autonomo, David Lagmanovich, citato nel puntualissimo articolo di Federica Arnoldi, apparso su Doppiozero, ossia disporre solo le parole reputate insostituibili, le uniche che vale la pena scrivere – continua Arnoldi – in questo senso, la microfinzione è innanzitutto una sfida intellettuale.

E la sfida intellettuale che si propone Alberto Chimal nel suo 83 romanzi viaggia su binari simili: l’eclettico autore messicano, che si riconferma un maestro per la sua abilità di dipingere dei quadri – come avrebbe detto Ilse, la protagonista del suo racconto “È stata smarrita una bambina” contenuto in Nove (Ed. Arcoiris) – capaci di accompagnare il lettore in molteplici mondi, che possono essere dimensioni sconosciute e inesplorate piuttosto che dargli la possibilità di accedere a punti di vista differenti (e non è poco), vuole riconsegnare a chi legge una raccolta di testi, che si interrogano su – come scrive Luciano Funetta nel suo Domicilio sconosciuto – “il complesso rapporto che la letteratura ha o dovrebbe avere con il reale”, e sovrappongono un esercizio di immaginazione, nello spazio di una riga quanto nel loro non detto, alla rappresentazione della realtà umana, ritratta dalla prospettiva delle sue conquiste e delle sue più o meno banali perdite; delle sue paure, dei suoi sentimenti, pulsioni e ossessioni, svelando il miraggio che quei personaggi mai nominati, mai definiti, inseguono: di tenere stretto in un pugno il segreto del mondo, una mania morbosa che nelle varie sezioni che prendono vita tra queste pagine non risparmia aspetti astratti e concreti, nemmeno la letteratura stessa, sottoposta a un costante processo di vivisezione teso alla ricerca di precursori e geni.

Una ricerca che ne racchiude tante destinate a fare naufragio, in un universo estremamente plastico, ma è forse questo l’innesco affinché quei piccoli mondi si espandano a dismisura nella mente di chi legge, per porlo di fronte a un compendio di originalità, in cui sorprendersi nel sentirsi riconosciuto, mentre riesce a inserirsi in un discorso coerente portato avanti dallo stesso autore attorno alla sua letteratura che gioca sul contrasto tra quei lettori abbastanza intrepidi da avventurarsi nell’ignoto, e coloro che invece non riescono a compiere tale  sforzo. È ai secondi che si rivolge con 83 romanzi nel momento in cui cede la vita dei personaggi che racconta al prima e il dopo, al sopra e sotto quel testo che appare sulla sua pagina, lasciandogli il compito di spalancarsi le porte dei suoi quadri letterari e convincerli del fatto che non c’è nulla da temere in ciò che non si riesce a capire e non si fa catturare.

Claudia Putzu

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