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Classifichina dei 5+1 migliori racconti latinoamericani che ho letto nel 2023

Sommario

Ho pensato, il problema delle raccolte è che poi devi dire “però non tutti i racconti sono allo stesso livello” (come se fosse possibile). Allora parlo dei singoli racconti che mi sono piaciuti, questo ho pensato. Non implicando che gli altri delle rispettive raccolte non siano belli o buoni. In maniera del tutto casuale, tre sono uscite del 2023 e tre dei recuperi degli anni precedenti. Il plus one è dovuto al fatto che ho lavorato a quel libro (revisione) quindi non mi sembrava corretto inserirlo in classifica, ma neanche volevo privarmi della possibilità di parlarne perché per me il racconto che citerò è stata una rivelazione e l’ho amato.

Ogni classifica è un gioco, e solo per gioco la mia è questa:

La pantera e altri racconti1) “Corpo presente” di Sergio Pitol (in La pantera e altri racconti, trad. Stefania Marinoni, gran vía edizioni). Dentro la mente di un uomo immobilizzato nel momento in cui il passato lo mette all’angolo: «Il passato non scorre, ristagna, si ferma e si fissa con contorni chiarissimi e in un preciso istante […] emerge per salvare o condannare la persona dentro cui risiede». Un uomo a cui non resta neanche la possibilità della disperazione (e quindi la possibilità di cancellarla con l’alcol). Traditore di una causa, dei compagni di un tempo e della persona amata, si è lasciato fagocitare dagli apparati e dai meccanismi del potere, dalla brama di farsi strada, fino a perdere sé stesso: «il timido compagno di viaggio era sparito del tutto per lasciare posto a un altro che meritava aggettivi simili a quelli che una lingua forgia per descrivere, ad esempio, una iena». E fino a odiare, irrimediabilmente, sé stesso: «In quell’istante aveva capito fino a che punto si odiava e in che modo i fatti che componevano la sua vita si erano rivelati stupidi e ignobili». Pitol ci lascia un ritratto spietato di un personaggio dolorosamente verosimile, per il quale tutto il grande affaccendarsi nella vita (che significa soprattutto tradire e tradirsi, mentirsi, fuggirsi) non è valso la pena, perché «qualcosa si è rotto per sempre».

 

Morte nel bosco2) “Tempo distrutto” di Amparo Dávila (in Morte nel bosco, trad. Giulia Zavagna, Safarà). Il cui incipit subito ci precipita nella trappola che ha allestito per noi: «Prima ci fu un immenso dolore. Un lento sgretolarsi nel silenzio. Un disarticolarsi nel vento oscuro. Perdere d’un tratto le radici e ritrovarsi senza appoggio, in una caduta sorda. Precipitare da una cima molto alta. Un ricordo, una visione, un volto, il volto del silenzio, dell’acqua… Le parole infine come qualcosa che si tocca e si palpa, le parole come materia ineludibile. E tutto accompagnato da una musica oscura e insistente». Da qui in poi una sequenza onirica, brevi episodi che presto rivelano i tratti di visioni d’angoscia. Per la struttura (ma non per l’angoscia), un racconto che ho trovato un po’ insolito rispetto agli altri della reina Amparo. Che comunque vanno letti tutti. (I racconti di Amparo Dávila sarebbero come le ciliegie, se non fossero amarene sotto spirito).

 

 

 

Gli azzardi del corpo3) “Salvezza di signorine” di María Ospina Pizano (in Gli azzardi del corpo, trad. Amaranta Sbardella, Edicola). Ha aspirazioni da salvatrice di giovani presunte ingenue, tenute in cattività in un istituto religioso. Oppure è una stalker morbosa in fuga dalla sua solitudine, la protagonista di questo racconto che inquieta in modo così sottile. «Aveva sempre l’impressione che il suo sorriso svelasse soltanto la traccia di una finzione, che tradisse la sua difficoltà nell’avverare tutta la bontà che prometteva». Nell’impossibilità di un confine tra il bene e il male, o più radicalmente di una identificazione del bene e del male, la pretesa del bene si storce verso qualcosa di non limpido. Sono sinceramente impressionata da questo racconto. L’avrei messo al primo posto per la freschezza, se sotto sotto non mi fossi sentita in dovere di pagare pegno al maestro Pitol e alla maestra Dávila.

 

 

Sono una pazza a volere te4) “Sei tette” di Camila Sosa Villada (in Sono una pazza a volere te, trad. Giulia Zavagna, Sur). Secondo me il racconto più apprezzato di questa raccolta sarà (non ho verificato) quello che le dà il titolo, un dolceamaro ritratto immaginario di Billie Holiday: ha tutte le carte in regola per piacere (non dirò quali). Io scelgo l’ultimo, “Sei tette”, che per me vale tutta la raccolta (che ho trovato un po’ ondivaga). Qui Sosa Villada finalmente si scatena e ci travolge con la ricchezza della sua immaginazione. Da una condanna a morte a caratteri cubitali («Tutti i trans devono morire e, con loro, chiunque li abbia toccati più di tre volte»), ha inizio l’esodo delle persone trans e le loro famiglie verso una terra d’esilio, che diventerà però un mondo nuovo, fuori dalle regole, prima di tutto le regole della “natura”. Creature di ogni sorta lo popoleranno, si formeranno nuove alleanze, metamorfosi e prodigi (tra cui la prima gravidanza di una ragazza trans) saranno all’ordine del giorno. Una lunga cavalcata nei territori del fantastico più puro, ma intessuto dei motivi della perdita e della rinascita.

 

 

Lasci la stanza come5) “Per salvare Beth” di Amilcar Bettega (in Lasci la stanza com’è, trad. Daniele Petruccioli, Del Vecchio editore) chiude la raccolta. “Autoritratto” la apre. I finali dei due racconti si parlano, in una inaspettata circolarità. Almeno così mi è sembrato. E mi sembrano i migliori della raccolta perché non si adagiano su metafore piuttosto esplicite (della depressione, della morte, della pazzia) o su topoi letterari assai frequentati (che gli altri un po’ lo facciano non li rende comunque meno piacevoli alla lettura). “Per salvare Beth” si può dire che racconti di un ultimo piccolo slancio di attaccamento al mondo (e a qualcosa di vivo, il cane Beth) da parte di un uomo ormai quasi sconfitto. Ma soprattutto, qui l’autore si libera anche di quella patina di intellettualismo che ho avvertito in “Autoritratto” e altri, resta solo un bel racconto con un bel finale, sommesso e malinconico.

 

 

 

Pesadelo+1) “Demoni” di Aluísio de Azevedo (in Pesadelo. Racconti d’angosce e ossessioni dal Brasile, a cura di Francesca Felici e Tiziana Tonon, ABEditore). Pubblicato la prima volta nel 1891, è considerato uno dei primi esempi di fantascienza brasiliana. In una Rio de Janeiro apocalittica ormai ridotta a «melma e buio», solo una coppia è sopravvissuta all’epidemia di morte che ha colpito tutti gli esseri umani. Immersi nelle tenebre e circondati da cadaveri, i due protagonisti intraprendono una sorta di viaggio attraverso gli Inferi, che non sono però luogo soprannaturale e metafisico, ma la Terra stessa ormai spopolata e in putrefazione. Nell’illusione di avanzare verso una qualche fonte di luce, subiranno un processo di involuzione, regredendo verso forme sempre meno umane e quindi diventando sempre meno presenti a loro stessi. Così anche il racconto scivola via via da una solida narrazione in stile gotico verso uno spazio onirico e allucinatorio, le cui immagini sono difficili da dimenticare.

 

Ho usato “onirico” due volte in questa classifica (ma neanche una volta “perturbante”), e ci sono chissà quante altre sbavature. Alcune sono intenzionali, perché volevo giocare e non fare una roba perfettina. Ogni classifica è un gioco, anche ogni racconto è un gioco, e le mie recensioni poi sono le più gioco di tutte.

Valentina Presti Danisi

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