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Elena Garro, I ricordi dell’avvenire

Sommario

«Vergine di Guadalupe, aiutaci a far fuori questi coglioni».

Un paese che è luogo in cui si svolgono i fatti e – contemporaneamente – il narratore della storia. Un paese che racconta e muove i suoi occhi (ma quali?) e guarda e osserva e indica e dice e protegge e rende vulnerabili i suoi abitanti. Un paese reale, un paese immaginario. Un paese piccolo, ideale affinché tutte le vicende riguardino tutti e tutti possano prendervi parte, chi come testimone, chi come accusatore o, peggio, come delatore, chi come vittima, chi come ribelle, chi come puttana, chi come pazzo, chi come presidente, chi come sanguinario, chi come fucilato, chi schierato nel plotone di esecuzione, chi eretico, chi prete. Un paese minuscolo nel cuore del Messico, dove la rivoluzione è appena passata, dove le donne sono pronte a farne un’altra, a volte silenziosa, a volte urlata, a mettere in gioco corpo e dignità, onore e segreti pur di poter dire di no, per far strisciare la protesta, per tentare di salvare una vita. Un paese che è una comunità perduta e isolata, eppure magica, eppure piena di margini di meraviglia, eppure coraggiosa, eppure depositaria di quel mistero che – tra una fucilata e un’impiccagione – chiameremmo salvezza.

«Tutti i giorni, alle sei del pomeriggio, arrivava il treno da Città del Messico. Aspettavamo i giornali con le notizie della città, come se potessero operare il miracolo capace di rompere il placido incantesimo in cui eravamo caduti. Ma vedevamo solo le fotografie dei giustiziati. Era il tempo delle fucilazioni».

Elena Garro e1718704396446Il paesino si chiama Ixpetec ed è ispirato a Iguala, in Messico, paese in cui è cresciuta Elena Garro, la scrittrice che lo ha inventato, insieme alla storia fantastica contenuta in I ricordi dell’avvenire, edito da Sur e tradotto da Francesca Lazzarato. Il libro è impreziosito da un importante saggio introduttivo di Guadalupe Nettel (tradotto da Giulia Zavagna) utile a centrare la figura di Elena Garro nel panorama della letteratura sudamericana e, di conseguenza, in quella mondiale. Nettel spiega, tra le altre cose, di come Garro (forse più di altre) abbia subìto la figura ingombrante del marito, Octavio Paz, che la spinse a non pubblicare e poi a distruggere le sue poesie e poi quasi tutto il resto dei suoi manoscritti. Perfino questo romanzo, scritto nel 1963, rischiò di essere bruciato in una stufa; oggi lo leggiamo grazie alla figlia di Garro che lo salvò dalle fiamme. Leggendo il testo di Nettel – prima di addentrarci nel formidabile racconto di Garro – non possiamo non andare con la mente alla storia di molte scrittrici donne che hanno subìto angherie di ogni tipo, pressioni dall’opinione pubblica, ritorsioni dalla critica e pene familiari affinché i loro manoscritti fossero considerati poco più di niente, cose da femminucce destinate all’oblio, ma parafrasando uno dei personaggi del romanzo, ricordiamo che l’oblio arriva quando la vita è già finita. Elena Garro è morta nel 1998 ed è viva più che mai, era soltanto un altro dei segreti (ma quanti sono?) nascosti della letteratura sudamericana. Per Nettel è, con Rulfo, la maggior autrice messicana del Novecento e, dopo averla letta, non possiamo che concordare.

«La piazza era silenziosa; i mandorli del sagrato, immobili; la gente taceva e guardava il terreno, che cominciava a sfumarsi di rosa. Tutto era già stato detto».

Un paese nella veste di narratore, non sentite già il profumo del realismo magico? Non avvertite già come un coro di voci che si muove e fa la storia mentre la racconta? Qui a Ixpetec tutto è molto reale, ma allo stesso tempo rimane sospeso come se attraversassimo un sogno, come se ci trovassimo in una grande illusione collettiva. Una cosa tipo la vita.

Come accennato, Elena Garro, ambienta le vicende poco dopo la rivoluzione e col Messico sull’orlo di una guerra civile. Il paese testimonia le storie che si snodano tra le sue vie, la piazza, la chiesa, il cimitero, il bordello e un albero; storie sospese tra menzogna e verità, tra crudeltà e amore, tra fede e i suoi misteri, tra il divieto di osservarla e il desiderio delle persone di non farne a meno. Tutto ruota intorno alla famiglia Moncada, alla bellissima Isabel e ai suoi due fratelli, al generale Francisco Rosas – che tiene in scacco il paese con i suoi soldati, e che ogni giorno condanna qualcuno a morte -, a Julia la donna che gli ha consumato il cuore, a uno straniero che arriva all’improvviso non si sa da dove, al matto che si fa chiamare presidente e che sogna di salvare il linguaggio. Lui contrasta i fucili con i vocabolari. E poi molti altri personaggi memorabili, soprattutto donne che sono motore, forza, desiderio e rivoluzione dentro queste pagine. Morte dopo morte – mentre il paese pare galleggiare in una sorta di calma noiosa, dove persino le esecuzioni vengono ormai accettate come inevitabili, figlie di un disegno più grande, di un mistero divino – l’arrivo del giovane straniero e il ritorno dei fratelli di Isabel smuove le acque, le pietre cominciano a rotolare, la polvere gira al contrario, le imposte sempre chiuse si socchiudono, nel silenzio avvengono spettacoli teatrali. I Moncada pensano che qualcosa possa salvare il luogo e la gente, ma che cosa?

«La morte degli altri è un rito che esige una precisione assoluta».

Tutto accade in fretta, una notte mentre i territori circostanti sono illuminati dalla luna, dalle stelle, il paese viene avvolto dal buio più nero e si sottrae dalla vista, due amanti spariscono, risucchiati dalla notte e da un’idea di felicità. Il generale Rosas quasi impazzisce, un sacrestano che dovrebbe essere morto scompare. Si svolge una festa che dura più di 24 ore, una festa dove tutti ballano, poi tutti diventano prigionieri, e altri invitati i loro carcerieri. E poi succede molto altro, in maniera ipnotica, sognata. Chi per amore fugge e chi per amore viene trasformato in pietra.

Elena Garro scrive una saga familiare, una storia d’amore impossibile, un romanzo storico dal quale si fa molta fatica a staccarsi. I dialoghi sono belli, molte frasi suonano come certe poesie (e qui salutiamo Octavio Paz, pur ammirandolo), i personaggi sono tanti e tutti riusciti e per tutte le quasi 350 pagine paiono danzare come nella festa infinita. Garro ci insegna che ogni rivoluzione passa dalle donne che sono le più indomabili e lucide, le più coraggiose e le più tenaci; le sue emanano luce.

«[…] ma l’importante era quello che non aveva detto, e cioè che le parole erano pericolose perché godevano di un’esistenza autonoma, e la difesa dei dizionari evitava catastrofi inimmaginabili».

Garro non amava la definizione di realismo magico, lo riteneva – come nota Nettel – una strategia commerciale più che una corrente letteraria, eppure questo suo romanzo ne è in qualche maniera precursore. Se la definizione nasce nel 1925 da parte del critico tedesco Franz Roh, diviene famosa quando esplode l’opera di Gabriel Garcia Márquez, ma il premio Nobel colombiano, come Fuentes e Donoso, deve qualcosa a Garro, perché I ricordi dell’avvenire ha aperto un solco e dall’acqua che è zampillata dal fosso gli altri hanno pescato, fosse soltanto un’immagine, un suono, una frase.

Gianni Montieri

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