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Ho ucciso un cane in Romania, Claudia Ulloa Donoso

Sommario

Claudia Ulloa DonosoHo ucciso un cane in Romania dell’autrice peruviana Claudia Ulloa Donoso e pubblicato in Italia dalla casa editrice Polidoro Editore nella traduzione di Massimiliano Bonatto, è la storia di una professoressa di norvegese per stranieri, emigrata dall’America Latina nella fredda terra dei fiordi, la Norvegia. Al di fuori di quelle aule dove sente di avere ancora il controllo delle cose, convive con un’acuta forma di depressione contrastata dall’uso di tranquillanti.

È la storia di Mihai, suo studente e amico, anche lui arrivato nello Stato scandinavo a seguito di una storia di emigrazione che lo ha portato prima in Spagna e iniziata nel suo Paese natale, la Romania, dove sta per tornare, per organizzare il praznic di suo padre, una tradizione romena celebrata al termine dei primi sette anni dopo la morte della persona cara; la invita ad andare con lui. Decide di portarla con sé perché le vuole bene, è preoccupato per lei; forse ne è attratto, forse addirittura ne è innamorato, o forse perché ognuno di noi costringe dentro di sé dei demoni di cui non parla con nessuno e la società in cui viviamo è troppo impegnata per accorgersi e prendersi cura di chi affoga in sé stesso e «lascia – come scrive Sara Benedetti nella sua bellissima prefazione a Fuori, di Birgit Birnbacher – a esseri umani di rara empatia il compito di trarre in salvo gli altri, quelli che incrociano e quelli che possono».

Il tempo della narrazione è lineare, i flashback rimangono confinati nella lunghezza di frasi brevi, amalgamate in un procedere fluido e sinuoso a scandire le tappe di un tragitto percorso a bordo di una Dacia dalla sudicia carrozzeria e noleggiata, lungo strade avvolte in un’oscurità spezzata dalle luci al neon dei distributori di benzina disseminati lungo il cammino. Il testo è suddiviso in quattro parti narrate in prima persona: nella prima parte, il protagonista è il cagnolino, la cui vicenda dà il titolo al romanzo; la seconda è raccontata dal punto di vista della protagonista senza nome; nella terza e quarta parte, si osserva l’alternarsi delle voci di quest’ultima e Mihai. Da questo succedersi, viene a crearsi una polifonia che ruota attorno al macro-tema di questo libro, da cui gli altri originano: il linguaggio.

È lì che esistono i personaggi di Donoso nella dimensione da esso ritagliata, dunque nei diversi modi in cui essi provano a comunicare il non detto, a restituire al mondo quanto hanno scelto di lasciare al silenzio, mentre si confrontano con quei discorsi pronunciati ad alta voce che non riescono più ad abitare, che diventano un qualcosa da evitare o accolgono l’impeto di una logorrea tramite cui si esprimono finanche i pensieri più scomodi, non mediati: lei si riempie la bocca di cibo; lui e le sue imprecazioni, il suo cedimento nelle aspre sentenze verso coloro che lo circondano, verso il posto in cui è nato e cresciuto e da cui è stato costretto ad andarsene, verso quella donna che non riesce a riprendersi e vede sprofondare ogni giorno:  attraverso di loro, uniti da un legame difficile da definire, il lettore si ritrova travolto in medias res da una contrapposizione che si concretizza a poco a poco, rivelando la determinazione con cui la penna – pur sempre dosata  – dell’autrice cerca di sondare l’insondabile: la difficoltà umana nel relazionarsi con il dolore altrui, il sentirsi impotenti di fronte ad esso; a ciò si aggiunge la malattia mentale, ancora difficile per molti, da chiamare con il proprio nome: nei pensieri di Mihai, Donoso riporta quella diffusa percezione dura a morire, per la quale la depressione si ostina a essere associata a uno stato di profonda tristezza dunque di fronte alla sua manifestazione subentra l’incomprensione, non per essere giudicante, piuttosto per dare il tempo di capire. Nel frattempo, prende forma quell’operazione estetica e letteraria, grazie alla quale il lento percorso di ripresa personale della “prof” è reso da una vertiginosa geometria degli spazi in cui si muove, uniti in un sistema di rette e segmenti, case e paesi, vivi e morti, tutti sullo stesso asse, per riconoscersi nella profonda tristezza e negli slanci che guidano tutti coloro che quotidianamente, come lei e a modo loro, stanno cercando di farcela.

Una geometria ritrovata nelle campagne romene animate dalla musica, tra amuleti religiosi e dalle credenze popolari, torte di grano segnate da una croce di cacao, e che raccontano la storia di un passato sotto una dittatura da cui è germogliato un clima di sfiducia, sotto il governo dei cosiddetti “genitori della patria”. Nel presente, ci sono solo dei genitori che provano a crescere i figli nella maniera migliore possibile, nonostante la povertà, talvolta separandosi da loro, per andare a lavorare in un posto lontano, straniero, che non li capisce e li addita come pezzenti, criminali, li emargina.

Un romanzo di quattrocento pagine che mai cade nella trappola della inutile e ridondante prolissità; in grado di unire diversi temi in una costellazione in cui, nelle battute finali, sembrano riunirsi persino le tre lingue – romeno, norvegese e spagnolo – tra loro in dialogo, dato che non esiste codice in grado di ostacolare le parole di cui si riempiono gli sguardi che chiamano i piccoli gesti di coloro che si impegnano a rispondere – senza fare domande – a una richiesta d’aiuto; e i silenzi, quelli di un cane malato, cresciuto in mezzo al letame, che la nota e la cui vicinanza la aiuta a spegnere il rumore che si porta dentro, per ricordarle che ciò che davvero ci salva, in questo mondo terrificante, sono le connessioni che riusciamo a creare. Mentre lei lo accompagna verso l’oscurità, la morte, lui la riporta verso la luce, la vita: così si scrive, nelle ultime pagine del libro, non un finale, bensì l’inizio di una storia che non leggeremo, ma forse riusciamo a sperare sia la più bella possibile.

Claudia Putzu

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