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Il candidato fuori posto, Leónidas Lamborghini

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C’è un uomo in viaggio, in treno, il viaggio è lungo e nello zaino lui ha un pacchetto con un libro, un libro che gli è stato regalato e di cui non sa nulla. Non è un gran lettore, l’uomo, è un viaggiatore ed è un lettore sì, ma non un gran lettore, e il racconto – perché è dentro un racconto, quest’uomo – il racconto non dice nulla di smartphone, di tablet, di possibili alternative alla noia o a dormire o a guardar fuori dal finestrino: fatto sta che l’uomo apre il pacchetto e si accorge che le righe sulle pagine sono brevi, insomma dentro quel libro si va sempre a capo e le righe sono versi, sono versi brevi, sempre a capo, insomma è poesia.

Oltre il finestrino scorrono pianure, periferie, città, fiumi e altri sobborghi e nuvole in corsa e profili montuosi: il treno è mezzo vuoto e della poesia l’uomo ha un vago ricordo di scuola, non è un lettore di poesia, a stento ricorda Pascoli, Carducci e D’Annunzio ma sono nomi e poco più, e anche il nome di Ungaretti ma non le poesie, solo un vago ricordo, e nel racconto l’uomo legge e prosegue a leggere quelle righe brevi nel rumore del treno e continua a leggere mentre il treno va.

Ho buoni motivi, anzi, ottimi motivi per ritenere che quel libro sia Il candidato fuori posto, poema in quattro tempi di Leónidas Lamborghini.

Leonidas LamborghiniLeónidas Lamborghini era nato a Buenos Aires nel gennaio del 1927. Suo fratello minore Osvaldo, che si trasferì a Barcellona dove morì di infarto poco più che quarantenne, dedito a droghe e alcol e – a quanto si sa – incapace di mantenersi, fu autore di poesie e di romanzi. Questi ultimi sono così pieni di violenza e di crudeltà che è possibile leggerli solo poco alla volta: così dichiarò Roberto Bolaño, uno che se ne intendeva mica poco, peraltro, ma solo quando si sentiva molto coraggioso reggeva la lettura di una o due pagine (non di più) di Tadeys, un romanzo che definì “intollerabile”, un romanzo pieno “di sangue, di viscere aperte, di liquidi corporali, di atti senza perdono”.

Leónidas invece visse oltre ottant’anni, ebbe moglie e figli e lavorò regolarmente, come impiegato e come giornalista culturale. Fu vicino per tutta la vita al peronismo, da cui il suo esilio a Città del Messico tra il 1977 e il 1990. Non un poeta maledetto come Osvaldo, dunque, ma anch’egli fu un autore sorprendente: scrisse saggi critici, in particolare sulla tradizione gauchesca argentina, sul comico e sulla parodia; e scrisse due romanzi, molte poesie e molti frammenti, una riscrittura parodica dell’Odissea e una riscrittura parodica del tango.

E scrisse El solicitante descolocado, cioè Il candidato fuori posto, che un po’ è parodia del Martín Fierro, cioè del poema epico nazionale argentino – ma qui, invece di un gaucho e di un sergente, appaiono due operai – ed è anche molte altre cose, che vedremo un poco qui di seguito: insomma, scrisse il poema che sta leggendo l’uomo in treno, l’uomo che continua ad apparirmi mentre scrivo queste righe.

L’uomo sta leggendo di seguito, mi pare, e non a salti: legge le pagine a sinistra in lingua spagnola (lingua che nemmeno conosce, peraltro), a destra la traduzione italiana. E il libro ha qualcosa che lo appassiona. Lo dice proprio lui, in quel racconto (un racconto poco noto, di cui non troverete notizie in internet): Questa che è stampata qui dentro – dice l’uomo – questa non è la poesia altezzosa, alata, che si trangugiava a scuola. È diversa. Che cosa strana. Qui c’è un dialogo tra due voci, una è del candidato fuori posto, un disoccupato che vuole un lavoro ma poi vuole tutto, l’altro invece è un sabotatore pentito, un operaio tessile promosso a dirigente e quindi pentito dei sabotaggi, poi pentito del suo pentimento. Sono due voci, ma forse sono la stessa persona, forse no. Il primo dice, per esempio:

 

Ho intenzione

di spaccare il capello in quattro

cercando la stabilità

lo stipendio secondo contratto

un orario che fili via liscio

oremus

pensione e vacanze pagate.

Mentre il sabotatore, l’altra voce, dice:

Non voglio

essere incluso mai più nelle statistiche

nel conteggio attivo

e nel complesso meccanico sono scoppiati

i tuoi giorni estate pazzi per la sete

e gli operai a voler lavorare

ad ubriacarsi

sotto la lamiera ardente

quando

la cagna padronale

nera, collerica, latrante, ha minacciato:

-Sanzioni senz’alcuna indennità.

Gli accade una cosa strana, all’uomo in treno, anche se non sa ancora bene cosa. Oscuramente si avvede che qualcosa è cambiato, qualcosa è diverso da prima, da prima di leggere quel libro. Qualcosa che riguarda le sue grane e casini, per esempio: quel ciarpame di parole che è faccende di lavoro, scazzi e contenziosi, beghe condominiali. Cos’ha questa poesia, si domanda l’uomo. Scioglie le parole.

E questa è solo la prima parte, dice l’uomo. Anzi, è solo il primo tempo.

Il libro che l’uomo sta leggendo, infatti, è un poema in quattro tempi, come scritto in copertina e frontespizio.

Il poema fu pubblicato a Buenos Aires nel 1971, poi nel 2008, ma il libro che l’uomo ha in mano è recente. È la prima pubblicazione in volume in lingua italiana dell’opera di Lamborghini: la traduzione è di Lorenzo Mari, che ha scritto anche la prefazione dal titolo “Una riunione (poco) familiare”, in cui appare infatti Osvaldo Lamborghini, il fratello infernale di Leónidas, che poi apparirà davvero nel quarto tempo del poema (e sarà davvero un’apparizione: riusciremo a raccontarvi qualcosa, l’uomo in treno e io – il viaggio è lungo); l’editore è Argolibri, casa editrice indipendente anconetana. Il libro ha una bella postfazione di Rosaria Lo Russo e, nelle ultime pagine, note molto belle e illuminanti sul lavoro di traduzione italiana, il ritratto fotografico di un Leónidas Lamborghini poco più che trentenne, una notizia biobibliografica; è parte della collana Talee, coordinata da Andrea Franzoni e Fabio Orecchini.

E in copertina è riprodotta una cianotipia, opera di Susanna Doccioli: blu violaceo e marrone, sembrano cieli e montagne o acqua, e un piccolo punto rosso. È molto bella. E somiglia a ciò che vede l’uomo in treno, quando interrompe la lettura e guarda fuori, ed è sera.

Il primo tempo del poema, in cui dialogano il candidato e il sabotatore, si intitola Le gambe a mollo, ovvero Las patas en las fuentes, titolo che ricorda il “Día de la Lealtad”, l’atto di nascita del peronismo, Buenos Aires 17 ottobre 1945: la mobilitazione operaia che ottenne la liberazione del detenuto colonnello Perón, con uomini e donne, e anche bambini, che dopo una lunga marcia di protesta andarono con le gambe a mollo nella fontana di Plaza de Mayo. Ed è un titolo ambiguo, come sottolinea Mari nelle note finali: infatti può significare anche “errori nelle fonti”, con tutto il portato politico, oltre che letterario, che in ciò risuona.

Lamborghini aveva già pubblicato quel testo anni prima, in forma di plaquette, così come i testi che poi formeranno, rielaborati, la seconda e la terza parte del Candidato: rispettivamente Quello stesso (Ese mismo), costituito tutto da paragoni o similitudini (come quello che…, come quello che…, con un curioso effetto ipnotico per l’uomo in treno) e La statua della libertà, che sprofonda in richiami alla vita psichica, ad atti sessuali e funzioni corporali, carne e vuoto e incavo e tornelli. Lamborghini quindi riunisce e risignifica alcuni suoi testi, già in precedenza dati a luce, dentro un poema nuovo: un poema che dice di crisi economica, di tensioni tra arte e politica, di una “testa di giullare” “che si aggira per le lande metropolitane delle Americhe già semiglobalizzate nei primi Anni Settanta”, come scrive Lo Russo nella postfazione. Un poema che impiega la parodia, nel senso etimologico del termine, come canto parallelo alle narrazioni e agli stili dominanti; un poema assieme narrativo e teatrale. E percorso, come scrive Mari nella prefazione, “da inizio a fine da una forte domanda di giustizia sociale”.

E il quarto tempo?

Il quarto tempo si intitola Dieci scene del paziente. E a differenza dei primi tre, non era mai apparso prima. Nasce assieme al Solicitante descolocado, al candidato fuori posto, nel 1971. Nel quarto tempo appare un io

io

il demente paziente di pazienza

– da anni fa –

accovacciato

chinato

in silenzio protesto

nel silenzio della protesta

verso l’interno

accovacciato

chinato

 

sgomitolo

sgomitolo

il gomitolo

e appare una “casa piena di rumori”, una moglie che “minaccia e grida”, un bambino che “distrugge/perché non intende”, un Informatore che “non offre garanzie/nella casa piena di rumori”, appare quel gomitolo che l’io parlante sgomitola e sgomitola (desovillar significa sgomitolare, ma anche portar pazienza), appare l’immagine di un cavallo che penetra una ragazza in una prateria, appare

il linguaggio che ripete

il caos

come il bambino che ripete

la distruzione

E alla fine appare anche il fratello, il fratello infernale,

il mio fratellino

il mio fratello grande

il mio cazzo di fratellino

il mio cazzo di fratello

e

il mio fratellino

il mio fratello grande

il mio fratellino adorato

il mio odiato fratello

Ciò che avverrà tra i due fratelli, quando si affronteranno – perché si affronteranno, eccome se si affronteranno – l’uomo in treno ancora non lo sa. Ma va a cercare. Cerca saltando a fine libro, leggendo il finale, come si fa con un thriller e con un giallo.  E con un poema narrativo. Ciò che avverrà tra i due fratelli – tema letterario fin dalla Genesi, ma a questo l’uomo in treno non ci pensa – non lo dice nemmeno quel racconto, peraltro ancora inedito anzi ignoto, perché il poema in quattro tempi, Il candidato fuori posto, tradotto da Lorenzo Mari per Argolibri, è uscito appena tre mesi fa. E il tempo dei racconti è un tempo strano, come certi viaggi in treno.

Legge l’uomo, sul treno:

Colpisci

Colpisci

nella piaga

libero dalla “bellezza”

libero dal “poetico”

e colpisci

ha gridato affacciandosi dietro a

sulla.

E che la parola sia

il tuo gesto.

Poi chiude il libro e guarda fuori, la sera fuori dal finestrino ha colori marrone blu e violaceo, e un punto rosso come in copertina.

Copertina in cui legge, a libro chiuso, queste parole:

Che il tuo verso

dia la vita

prima che il suo commento.

Silvia Tebaldi

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