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Il corpo in cui sono nata, Guadalupe Nettel

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“Non so come la pensi lei, dottoressa Sazlavski, ma per me il presunto incanto che molta gente attribuisce all’infanzia è uno scherzo giocato dalla memoria. A prescindere dalle differenze tra una vita e l’altra, sono convinta, dottoressa Sazlavski, che nessuna infanzia possa essere del tutto piacevole. I bambini vivono in un mondo dove la maggior parte delle situazioni in cui si trovano è imposta. Altri decidono per loro: la gente che devono vedere, il luogo in cui devono vivere, la scuola che frequenteranno, persino ciò che devono mangiare ogni giorno”: è a pagina 122 de Il corpo in cui sono nata (La Nuova Frontiera, 2022) che il racconto di una storia personale si fa universale e affronta quella che a me pare una verità troppo spesso dimenticata o taciuta. Il libro è una nuova edizione del romanzo d’esordio di Guadalupe Nettel, uscito per Einaudi nel 2014 con lo stesso titolo, e costituisce la sua unica opera autobiografica fino a oggi. Chi, come me, lo leggerà dopo tutte le sue opere successive, vi riconoscerà l’origine di una quantità di elementi tematici e stilistici tipici dell’autrice, come i paralleli tra l’essere umano e altre specie (la madre l’ha cresciuta col nomignolo di “scarafaggio”) e ritroverà la questione delle peculiarità fisiche inscindibili dalla personalità, qua al centro della vicenda.

Guadalupe Nettel La Nuova FrontieraNata con un problema all’occhio destro causato da un neo sulla cornea, la Nettel avrà la vita condizionata da questo fatto fin da piccola, quando per anni passerà metà della giornata con l’occhio sano bendato per favorire lo sviluppo dell’altro nei limiti del possibile, in attesa di una soluzione futura. La stranezza fisica e quella caratteriale – impossibile stabilire quale sia nata prima – accompagnano come una cosa sola la crescita della protagonista, che plasma il suo atteggiamento verso la vita in loro funzione: “Ero decisa a sottolineare la mia eccentricità che altrimenti sarebbe apparsa involontaria e, dunque, ingestibile. Riconoscerla, invece, era una dimostrazione di forza”. Sullo sfondo c’è la storia di una famiglia che se si sforza, da una parte, di educare i suoi figli alla massima apertura mentale possibile, dall’altra li lascia soli per lunghi periodi e si ritrova a fare scelte, tra cui grandi spostamenti geografici, per loro del tutto incomprensibili. Nonostante le intenzioni dichiarate dei genitori, in particolare della madre, di parlare con loro esplicitamente di tutto, compresi gli argomenti imbarazzanti, Guadalupe e il fratello Lucas si ritrovano a subire passivamente, senza essere in alcun modo coinvolti, le decisioni degli adulti, che hanno su di loro ripercussioni traumatiche; condizione questa che, per quanto qui estremizzata, si ritrova in tutte le storie d’infanzia e di adolescenza, ed è probabilmente alla base del disagio che, in qualche forma, caratterizza sempre queste età della vita. Certamente il senso di disagio e inadeguatezza che questo racconto autobiografico trasmette è forte e, per quanto sul finale se ne prospetti una risoluzione almeno parziale, viene spontaneo chiedersi quanto, con l’età adulta, la ragazzina di cui abbiamo appena letto i travagli interiori sia effettivamente riuscita a essere felice. Di certo si ha la sensazione di capire l’origine della dose massiccia di perturbante che caratterizza tutto il resto della sua produzione, ma in particolare i suoi racconti di ispirazione vegetale e animale (Bestiario sentimentale e Petali e altri racconti scomodi, entrambi editi da La Nuova Frontiera rispettivamente nel 2018 e 2019). Considerando che in questa autobiografia la Nettel si rivolge a una “dottoressa”, ci si può azzardare a pensare che la scrittura possa essere parte della cura: “Il silenzio, come il sale, è leggero solo in apparenza: in realtà, se si lascia che il tempo lo inumidisca, diventa pesante come un’incudine”.

Caterina Iofrida

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