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Lasci la stanza com’è, Amilcar Bettega

Sommario

AMILCAR BETTEGA ESCREVEDEIRA 2 ce341Nei racconti di Lasci la stanza com’è dell’autore brasiliano Amilcar Bettega (Del Vecchio Editore, 2020, trad. it. di Daniele Petruccioli), dettagli fuori contesto alterano e sconvolgono la quotidianità, stimolando l’attenzione dei personaggi del racconto, esattamente come il dettaglio del tappo di bottiglia che chiude “L’incarico” (in Da dove sto chiamando di Raymond Carver, 1988) il racconto citato da Bettega nell’epigrafe e che dà il titolo alla raccolta.

 

 

L’incarico

Nella stanza d’albergo di un centro termale di Berlino, il drammaturgo e scrittore russo Anton Čechov e sua moglie Olga Knipper trascorrono la loro ultima notte. Čechov è moribondo e dopo essere stato visitato dal medico curante, ordina una bottiglia di champagne da portare in camera.

Il compito viene affidato a un giovane cameriere che serve lo champagne sperando di nascondere la propria inadeguatezza. I tre brindano ma durante la notte Čechov si spegne e alla moglie viene concesso di restare sola con lui a vegliarlo. Il mattino successivo il ragazzo salirà in camera e verrà incaricato da lei di trovare un impresario delle pompe funebri che fosse degno di Čechov. Il ragazzo rimarrà imbambolato a fissare un irrilevante dettaglio nella stanza, il tappo sul pavimento caduto per terra al momento dell’ultimo brindisi. Indeciso su cosa fare e, alla fine, contravvenendo alle disposizioni di Olga che gli chiede di sbrigarsi con un secco «Lascia la stanza com’è», deciderà ugualmente di raccogliere il tappo dal pavimento, oggetto che segna un inappellabile passaggio di stato nella relazione fra i personaggi, il passaggio dalla vita alla morte di Čechov, diventato anche lui oggetto inanimato poco dopo il brindisi, ma anche uno slittamento dall’estraneità all’intimità  che si instaura nel giro di una frase tra il cameriere e Olga, che dà  al ragazzo un incarico talmente importante e per il quale lui non si sente pronto. La scelta di Bettega di fare riferimento a questo racconto di Carver indica non solo una comunione di voce o stile con lo scrittore americano (la distanza tra la prosa di Bettega e quella di Carver appare immediatamente netta e dichiarata) quanto l’affermazione di un preciso atteggiamento autoriale. Bettega come Carver e come Čechov, ma con strumenti nettamente diversi, si pone come un autore che intende nascondere la propria presenza sulla scena per lasciar parlare la materia di cui è fatta la scena drammatica: gli oggetti, città, mura, paesaggio, corpo. L’autore diventa così un testimone impassibile che allestisce lo spazio dell’azione per poi lasciare che il lettore da solo e senza aiuto si muova tra i dettagli per assolvere al compito di assemblaggio e decodifica degli elementi che costituiscono il testo.

L’atteggiamento di Amilcar Bettega è quello di un regista invisibile che orchestra una realtà affollata di personaggi che comunicano direttamente con il lettore senza intermediazione. L’incarico che l’autore ci affida è quello, quindi, di entrare in contatto con questo paesaggio narrativo, luogo in cui ci verranno poste numerose domande, uno spazio disseminato di indizi che nessuno si preoccuperà di riordinare per noi, né l’autore né i personaggi che animano la storia.

L’incarico di questi racconti è proprio in questo mandato di   ricomposizione di senso. Con continui movimenti di macchina narrativi e una scrittura spesso disadorna, segnata anche dalla ripetizione ciclica e ossessiva, Bettega porta il lettore a vivere un’esperienza a volte estrema di storie di logorio relazionale atroce e dissoluzione della realtà, in cui la struttura classica del racconto viene continuamente lacerata da perturbazioni dell’immaginario capaci di evocare una seconda inquietante dimensione sotto le spoglie cupe del reale.

Il paesaggio

“Non si può dire che sia, o sia stata, una casa ricca. Una casa grande niente di più. Cos’altro? Certo, la prospettiva, la vista sempre dall’alto. La facciata (quel poco che si vede, per via dell’angolazione) e il tetto (anch’esso sporchissimo, le tegole coperte di muschio) come amalgamati in un primo piano complesso e per niente chiaro. Poi, il retro appena intuibile della casa, dove è impossibile distinguere tra ciò che è ancora casa e ciò che sono alberi e giardino e ombre”. (“Autoritratto”)

L’immagine che apre Lasci la stanza com’è è una casa immersa nel verde e insidiata dalle ombre. Ciò che la rende  disturbante trasformandola in qualcosa di spaventoso è il particolare punto di vista da cui noi lettori siamo spinti  a guardare, una messa in quadro che ci obbliga a una visione dall’alto, un’altezza elevata che fa precipitare i nostri occhi su una scena che assume i tratti di una composizione grottesca in cui l’edificio e il giardino sembrano un unico corpo, indistinguibile nelle sue parti, attraversato da un movimento febbrile mentre gli esseri umani, il custode della casa e una donna grassa, sono immobili, praticamente esseri inanimati simili a pietre. Nel racconto “Autoritratto”, come accadrà in ognuna delle storie, il perturbante non si manifesta nelle vesti di apparizioni spaventose, creature aliene o epifanie inquietanti, bensì attraverso una distorsione del pensiero e del punto di vista. La scrittura di Bettega opera un ribaltamento nella connotazione degli elementi del racconto. In questi racconti ciò che è morto o che non è mai nato nel mondo visibile respira e minaccia, mentre i vivi, presi in trappola da una paura senza nome, restano immobili, raggelati, inermi come oggetti che possono essere spostati da un luogo all’altro, rotti, gettati via, dispersi.  Qui, come in una delle celebri inquadrature dei film di Antonioni, la scrittura realizza una sorta di ripetuto décadrage in un cui la figura umana viene estromessa dal quadro, ridotta a forma accessoria rispetto all’ambiente, mentre il paesaggio assume il ruolo di antagonista.

Le prede

“Certo, anche il caldo di questa città serve ad aumentare la sensazione di soffocamento. Ti irrigidisce. A volte l’aria qui dentro mi sembra si ispessisca fino a diventare una specie di gel, che invade tutto l’interno con l’ovvia conseguenza di intralciare i movimenti”. (“Esilio”)

Prede del paesaggio, i personaggi che animano i racconti di Bettega non possono fare altro che provare a fuggire, sentire orrore e soccombere a un’ambientazione che li terrorizza, disorienta, tormenta e alla fine cancella. Nel racconto “Esilio”, un uomo, intenzionato ad abbandonare il suo negozio e a lasciare la città ormai vuota, opprimente e silenziosa, intraprende un estenuante viaggio notturno solo per scoprire che la città stessa lo sta seguendo, che la città si espande, non finisce e non accetta di essere abbandonata.

“Camminò tanto, e a ogni via che imboccava si imbatteva costantemente nell’ombra delle mura. Entrò e uscì da diverse stradine, senza trovare la via del ritorno. Per molto tempo continuò a camminare per la città, doveva essere già pomeriggio quando, esausto, pensò all’appuntamento e capì che nel profondo di sé aveva ormai perso ogni speranza che si concretizzasse”. (“L’appuntamento”)

Nel racconto “L’appuntamento” una coppia vaga senza meta in una città cinta da mura centenarie che sembrano incombere su di loro. I due cercano invano di ottenere un misterioso appuntamento, ma la città stessa, con la sua demoniaca costituzione topografica di vie che si mostrano per poi scomparire o mutare direzione, si oppone al loro scopo e li disorienta fino a isolarli per farli scomparire del tutto. Nella strana città, vie, cose e persone svaniscono perché perdono la direzione e si allontanano senza poter opporre resistenza a quello che sembra essere un oscuro sortilegio, ma è la città a manovrarli o sono loro ad aver perso la ragione tentando di comprenderla e dominarla? L’autore non concede al lettore alcuna spiegazione. Come nella migliore tradizione del racconto fantastico teorizzato e realizzato da Julio Cortázar (per  citarne uno, potremmo ricordare “Casa occupata” in Bestiario, 1951, nel quale un fratello e una sorella vengono spinti fuori dalla loro casa da una presenza che non ci è data vedere e della cui esistenza siamo portati a dubitare fino all’ultimo), anche in questi racconti tutto accade dentro e fuori i personaggi senza che noi lettori possiamo cogliere la manifestazione del mistero in una forma concreta e tangibile.

L’incubo

Lì dove si svolgono le vicende narrate, i ritmi sono quelli plastici e ingannevoli del delirio immaginativo e la prosa attenta, precisa nell’evocare immagini evanescenti, ha la fluidità minacciosa di desideri abortiti, rimorsi ricorrenti e sensi di colpa scaturiti da sinistre deviazioni dei pensieri.

L’esperienza inquietante che vivono gli uomini e le donne di queste storie è un incubo interpretativo, qualcosa che ha a che fare con le distorsioni dell’immaginario dei paranoici. Amilcar Bettega ci mostra luoghi in cui tutto è vago e interpretabile, ogni elemento può essere frainteso e usato per alimentare un disturbo del ragionamento, una delirante ipertrofia del sospetto.

“Le disse tutto in maniera sconnessa, saltava passaggi, tornava indietro per aggiungere particolari e darle un’idea più o meno chiara di quello che era successo. Parlava, ma più parlava più aveva l’impressione di rendersi incomprensibile”. (“Per salvare Beth”)

Nell’esplorare il mistero che è nel luogo per poi sottrarvisi attraverso la fuga, i personaggi dei racconti compiono percorsi tortuosi e densi di dettagli specifici, ma distorti da una percezione alterata.

“In certi momenti è impossibile identificare la canzone, sapere se canti veramente o canticchi a malapena con voce di gola. Sono i momenti in cui mi concentro di più e mi sveglio. I momenti in cui il mio fisico viene più sollecitato. Quasi sempre sono costretto a concentrarmi tanto che alla fine casco dal sonno per lo sfinimento.  Quando mi sveglio, la sua voce mi arriva insieme al rumore dell’acqua nella vasca. Scorrendo nella vasca quasi piena l’acqua produce un suono più ovattato, e sono in grado di distinguere l’istante preciso in cui la schiuma comincia a traboccare”. (“Attesa”)

Il tempo atmosferico, la zona in cui si trova una strada, la presenza in un punto preciso di una panchina, di un albero, la collocazione dei corpi nello spazio, lo sguardo che registra i dettagli di un arredamento di interni, la disposizione di pietre e alberi, la consistenza dell’aria, il colore del cielo: ogni particolare nella storia sembra testimoniare questa lotta impari tra l’uomo e il luogo nel quale, suo malgrado, sembra essere rimasto avviluppato.

“L’ampiezza degli ambienti diminuiva e la luminosità è calata. Ci siamo avviati attraverso un ulteriore corridoio da cui se ne dipartivano diversi altri, uno dei quali in diagonale, come uno scambio di binari ferroviari; abbiamo imboccato quest’ultimo e lì ho cominciato a sentire un forte odore di fumo”. (“La visita”)

Negozi abbandonati, case che d’improvviso diventano silenziose e buie, città che sconfinano oltre i limiti segnati dal territorio colonizzando l’immaginario dei personaggi, sono lo scenario di questi racconti in cui le impressioni sui fatti erodono la struttura del reale per restituirci una mappa sconnessa che descrive il tortuoso percorso di fulcri di percezioni alterate.

Il racconto “Il volto” dispiega attraverso un’aberrante concatenazione di immagini e significati il tema dell’identità reso attraverso una storia di stupore del sé, una specie di delirio genealogico che ha per oggetto il volto stesso del protagonista.

“Non so per quanto potrò disporre di questo salotto. Così come alcune stanze spuntano dal giorno alla notte, altre spariscono senza spiegazione, in una sorta di bilanciamento operato dalla casa, quasi invasa da un rigore matematico. Ho già pensato di rinchiudere il volto in un vano condannato a scomparire”. (“Il volto”)

L’eccesso interpretativo a cui si abbandonando i personaggi con le loro supposizioni cariche di sgomento e i loro deboli tentativi di accordo con il perturbante, porta solo ad alimentare il buio. Con una prosa scarna, movimenti di frase che riprendono l’ossessivo ciclico giro di pensieri dei protagonisti e rendono conto in modo asettico dei loro spostamenti o delle loro reazioni emotive, Amilcar Bettega ci lascia entrare nella mente dei personaggi per sentire e vedere dall’interno il disagio di abitare luoghi che vengono percepiti come carceri sofisticate in cui i protagonisti sono rimasti bloccati. In questi racconti tutto si trasforma e cambia continuamente sembiante perché tutto quello che viene descritto come esterno al protagonista è in realtà una sua proiezione, riparatoria a volte, mentre altre volte punitiva. L’elemento fantastico diventa allora un fantasma dell’immaginario in cui nulla ha identità definita, sganciata dal soggetto che lo incarna, interpretandolo. Se tutto è interpretabile, è anche portatore di un vuoto di senso che è la materia prima di cui è fatto il mondo. In questo vuoto, che nelle storie di Bettega assume le forme più varie, dal giardino antropomorfo, alla città carnefice, alla casa stregata, al varco d’ingresso che separa il mondo dei salvi da quello dei condannati, le azioni umane sono accessorie e non determinanti, le tracce lasciate dagli uomini non servono più a redimerli,  ma solo a testimoniare il loro fugace passaggio sulla terra, nella vita di qualcuno che non arriverà mai a comprenderli del tutto e da cui non potranno essere compresi nella propria interezza, forse perché questa, come sembrerebbe suggerirci l’autore, non esiste, così come la realtà, se non nella nostra fallibile interpretazione.

Emanuela Cocco

 

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