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L’Avana mi parla, Antón Arrufat

Sommario

Arrufat era prigioniero dell’Avana.

Perché non lo capivano, chi non aveva resistito, chi si era allontanato, lo accusava di connivenza con il regime.

Gli dicevano: perché non te ne vai?

Lui non si muoveva e perché non rispondeva e perché non se ne andava, bloccato dentro un Uroboro di scuse e accuse, lo accusavano ingiustamente.

Queste cose ce le dice Laura Putti, in una bellissima prefazione.

Laura, L’Avana mi parla, lo ha cercato, lo ha pubblicato e lo ha tradotto.

Erano amici, Laura Putti e Arrufat. A presentarglielo era stata la moglie di Calvino. Arrufat è stato uno dei più grandi poeti del suo paese e un drammaturgo e un saggista ma, come spesso succede ai poeti e come a volte succede ai cubani, non aveva molti soldi.

Anche quando gli scrittori sudamericani divennero di moda, lui rimase isolato da certi giri esotici. Il suo amico Vargas Llosa lo spronava a scrivere un romanzo, gli diceva: se vuoi diventare famoso devi scrivere un romanzo. Sarebbe stato più facile trovare un editore, esportarlo all’estero e allora Vargas Llosa ripeteva: scrivi un romanzo; ma come spesso succede ai poeti e come a volte succede ai cubani, Arrufat aveva la testa dura.

Anton ArrufatChe poi lui da Cuba se n’era anche andato, da ragazzo. Detestava Batista e se n’era andato. Il suo fidanzato si chiamava Maikel Sánchez e faceva il costumista e lo scenografo. Erano andati a Brooklyn a cercare fortuna e poi erano arrivati i Barbudos, era arrivato Fidel e, travolti dal sogno, erano tornati. All’inizio deve essere stato un incanto, come sempre quando la storia, concretamente, entra nella vita degli uomini e loro si sentono posseduti e possessori del tempo che vivono, senza subirlo.

All’Avana c’erano tutti: Márquez, Cortázar, Vargas Llosa, Lezama Lima, Alejo Carpentier.

Comincia subito, Arrufat, a scrivere sulle riviste rivoluzionarie, pubblica poesie, articoli e poi succede quello che succede ogni volta, il regime si struttura, la bestia cambia, si chiude, si irrigidisce, diventa sospettosa e conservativa.

Le riviste che erano considerate rivoluzionarie, diventano controrivoluzionarie, il pensiero viene offeso dai burocrati, la letteratura mutilata dalla censura e le pagine scompaiono dai manoscritti a morso di cane.

Ci fu il “Caso Padilla” come racconta Bernardo Valli in un articolo allegato a questo volume.

Valli scrive che Herberto Padilla, poeta e amico della rivoluzione, dopo un viaggio in Unione Sovietica, scoprì che i metodi repressivi del regime comunista, erano gli stessi che Fidel attuava a Cuba. Padilla era condannato al coraggio e non seppe tacere. Chiunque si schiererò al suo fianco, venne messo all’indice. Così Arrufat.

Lo rinchiusero dentro lo scantinato di una biblioteca dove una sorvegliante mulatta lo puniva facendogli lavare il pavimento. Per quattordici anni impacchettava libri per otto ore al giorno. Non poteva scrivere e non poteva vedere nessuno. Bernardo Valli racconta poi un singolare e grottesco episodio, legato alla prigionia. C’era una Maya desnuda, in quello scantinato, una copia del Goya, senza nessun valore. Sul quadro trovarono tracce di sperma e, nonostante tutti sapessero che era omosessuale, anche di questo lo accusarono. Condannato a lavare i pavimenti, la mulatta lo sorvegliava. Lui non la perdonò mai. Anche quando caddero tutte le accuse, anche quando Arrufat venne riconosciuto come un grande poeta, le serbò rancore. Aveva un talento immenso, di cui si serve per raccontare la sua città, che amava e lo teneva legato.

L’Avana mi parla, pubblicato dalle Edizioni Ventanas, è un racconto, un memoir e una guida allo stesso tempo.

Un nonno e un nipote si aggirano per la città e queste passeggiate diventano l’occasione per ricordare. Con ogni posto, ogni casa, ogni stradina, il nonno ha creato un legame che consegna al nipote perché non si spenga la memoria. Il ricordo è il pericardio fibroso con cui questo poeta peripatetico ha protetto la luce di una città che è stata, per lui, madre, figlia, amante e carceriera.

 Pierangelo Consoli

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