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Chi è Laura? E chi la vuole uccidere, e perché?

Suona il campanello, la porta si apre, entra una donna: ha unghie acriliche, trucco perfetto, e sorride. Chi le ha aperto è sua sorella, addosso ha i segni di una notte insonne. Stranamente si astiene da qualunque commento sul tuo aspetto. Non sai se essere grata di quel gesto perché, chissà, potrebbe facilitare le cose. Tre righe e c’è già un mondo: l’incipit di un’uccisione, o di un romanzo. Un romanzo in tre pagine.

Un racconto è un romanzo ripulito dal superfluo, scrisse Horacio Quiroga.

Il campanello, una donna che apre e una che entra: inizia il racconto e siamo già in mezzo agli eventi. Un altro incipit: Arrivi a casa. È tutto buio. L’idea di una festa a sorpresa ti emoziona. Cammini fino alle stanze, ma nessuno ti viene incontro. Apri gli armadi e ti accorgi che i tuoi vestiti non ci sono. E un altro: L’assassino l’ha spinta sul divano. Le si è lanciato sopra e, mentre la colpiva sul volto, le chiedeva: dove sta, dove sta. Sta accadendo qualcosa, non ne sappiamo nulla e siamo lì.

Matemos a Laura, dell’autrice dominicana Sandra Tavárez, è una raccolta di racconti uscita a Santo Domingo nel 2010; nel dicembre 2024, la casa editrice indipendente salernitana Edizioni Arcoiris la pubblica nella traduzione italiana di Claudia Putzu, con il titolo Uccidiamo Laura e un’introduzione di Raúl Zecca Castel. E in copertina un’illustrazione memorabile come il titolo: un disegno a colori azzurri blu e rosati, un mondo sommerso, un fondale marino.

Ti paralizzi e ti dici spaventato “Oggi è ieri”.

Uccidiamo Laura è un libro di prose brevi, una delle quali dà il titolo alla raccolta. Attiene a un genere assai frequentato nel mosaico delle letterature dominicane: come scrive Claudia Putzu nella postfazione, si tratta di “ventiquattro racconti in cui temi quali il lavoro malpagato e la povertà, criminalità, guerriglia e violenza di Stato, infine il sogno di andarsene via, affiancano situazioni apparentemente ordinarie e quotidiane che rivelano man mano una realtà sempre più sinistra e oppressiva, che trova nel finale soluzioni inaspettate, al confine con l’assurdo”.

Leggo tutti i racconti. Poco più di ottanta pagine. Ventiquattro romanzi sommersi, depurati dal superfluo, poi salvati; un lavoro sul tempo, contro il tempo, nel tempo.

Ora sorridi e ripeti ancora: “oggi è ieri”.

Sandra TavarezDi Sandra Tavárez trovo scarse notizie in rete. Dall’edizione Arcoiris apprendo che è nata nel 1970 a Santiago de los Caballeros, la seconda città della Repubblica Dominicana. Di Tavárez so poco, ma di una cosa sono certa: la sua scrittura mi costringe a pensare.

Sul cuento breve latinoamericano, sulla sua storia, la sua intensità, la sua concentrazione e furia, c’è una tale moltitudine di studi che anche solo accennarvi, qui, ha poco senso. Tendo a dimenticarlo, perché li ho amati sempre: ma i racconti che ho in mente, quei racconti senza nulla di superfluo, affilati, che fanno una scommessa con il tempo, un tempo quei racconti non esistevano.

“Poche, efficaci frasi ordiscono lo scacco matto narrativo perfetto”, scrive Putzu nella postfazione di Uccidiamo Laura; questi racconti, scrive Raúl Zecca, “sono mondi dove l’angoscia e la tensione pervadono le vite dei protagonisti, così come quelle degli assenti, gli invisibili, coloro che sono evocati come in una sorta di seduta medianica letteraria”. Poi trovo un blog della stessa Tavárez (https://sandraTavárez.blogspot.com) e leggo una sua frase, che in italiano suonerebbe così: “Almeno, nel racconto, lo scrittore ha il dominio assoluto dei suoi personaggi, mentre in un genere come il romanzo, a volte, ci sono personaggi che si ribellano al destino che l’autore aveva disposto per loro”. E allora mi torna in mente Quiroga: “Prendi per mano i tuoi personaggi e portali con decisione fino alla fine, senza vedere altro che il percorso che hai tracciato per loro. Non ti distrarre nel vedere ciò che non possono o non gli interessa vedere. Non abusare del lettore”.

Ripenso a tutto questo, riguardo il disegno in copertina: onde, pesci, coralli: una lieve, lieve ma irriducibile, aberrazione prospettica. Unisco i puntini.

Tendo a dimenticarlo, ma il racconto moderno (sì, anche il cuento breve) è figlio della novella antica. La quale era un po’ come una conversazione conviviale, quasi un testo da ascoltare, e infatti era introdotta da un cerimoniale: la cui forma più nota, non l’unica, è quella cornice che incastona le novelle nel Decameron. La novella iniziava con un piano panoramico, spesso con l’imperfetto delle favole, si apriva con tempi indefiniti (“vi fu già in Firenze un giovane…”) e adagio si avviava al punto di svolta, al memorabile: quello sì, posto su un piano scenico. Ma prima di quel punto, le vicende “sono quasi sempre in una temporalità scorciata, riassuntiva, panoramica” (cito da Gianni Celati, “Elogio della novella”, in Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata 2011, un libro bellissimo e infinito).

Nel racconto moderno, il cerimoniale è sparito. In luogo di quel piano panoramico c’è subito, già nelle prime righe del racconto, il piano scenico o realistico: luogo e momento precisi, precisa focalizzazione, fin da subito la scena e gli eventi. E chi legge (cito ancora Celati) “è catapultato direttamente nei fatti, come se piombasse in uno stato d’emergenza”.

Diversamente da altri autori e autrici del mosaico letterario dominicano contemporaneo (penso a Kianny Antigua di Bestiole, a Luis Reynaldo Pérez di Infami, a L’uomo triangolo di Rey Andújar, tutti pubblicati di recente da Edizioni Arcoiris nelle pregevoli traduzioni di Barbara Flak Stizzoli), Tavárez non menziona toponimi dominicani, titoli di bachata o di merengue, o altri specifici segnali dell’ambientazione caraibica. Il contesto della narrazione è nondimeno, e con evidenza, proprio questo. E lo sfruttamento del lavoro, i sogni di fuga, la violenza, la criminalità e la marginalità – menzionati da Putzu nella sua postfazione – sono più che il teatro di questa narrazione: sono il reale dietro l’apparenza, dietro lo stereotipo, dei paradisi caraibici.

Non tutti i ventiquattro racconti mettono in scena situazioni estreme: non è questione di urlare l’orrore, spesso basta l’assurdo, l’angoscioso, il senso di oppressione a saturare il campo. E l’acuta, secca, essenziale tessitura narrativa taglia vuoti profondi, simmetrici alle ripetizioni, ai salti temporali e alle ricorsività che la caratterizzano: crea zone di echi e di vuoti, un non detto che riverbera, quella sorta di evocazione medianica menzionata da Raúl Zecca. Mentre ti catapulta nel vivo delle storie, nello stato di emergenza, in eventi tremendi, o banali, o da banali improvvisamente tremendi, Tavárez costruisce ambiguità, riverberi enigmatici, zone ignote su cui tornerai. Perché spesso, qui, tutto si ferma un istante prima della catastrofe, dell’epifania, dello scarico di tensione che attendevi. E allora leggerai a ritroso, e in ogni frase cercherai un indizio.

Nessuno reclamerà il tuo corpo, perché tu sei tu e di te non importa a nessuno.

Da sempre mi attraggono i racconti scritti in seconda persona. Li sento come schegge, come luce inspiegata che ferisce. In Uccidiamo Laura, fin dal racconto che dà il titolo alla raccolta, spesso la voce narrante dà del tu alla persona narrata: le legge nel pensiero, sa cosa prova e cosa sente addosso, cosa è accaduto e cosa sta accadendo. Tendo a dimenticarlo, ma quella voce narrante parla a me – nel tempo che dura la lettura, anche io sono quel tu.

E un’altra cosa che mi affascina, dei racconti, è il fatto che la cornice delle novelle tradizionali – quell’antico cerimoniale di conversazione – sarà anche sparita, ma ovunque ha lasciato le sue tracce. Nel paratesto, nelle scelte editoriali – collane, copertine, aggiunte di testi ai testi principali – e nel parlare e scrivere di loro, su carta e in rete e dal vivo. Mi sembra diventata come un paesaggio, quella cornice, come si frantumasse in echi e riverberi: ogni racconto si collega agli altri e si fa segmento, microstruttura dentro una struttura, si muove come un’onda in un paesaggio sonoro. Dove chi legge si perde, si confonde con i personaggi, si sente addosso il tu, legge a ritroso nello straniamento, arriva in fondo al libro e infine vede, cioè sente, quel paesaggio.

Nel caso di Uccidiamo Laura, a un certo punto ho visto i racconti incastonati in una cornice invisibile, che è anche, e assieme, il fulcro del libro: è il contesto caraibico, è la tensione reciproca tra i testi, è il disegno paratestuale di prefazione e postfazione – distanti e complementari – assieme al gioco prospettico dell’immagine di copertina (se avrete la curiosità di sapere chi ha realizzato questa immagine, fate attenzione ai dintorni del libro: perché ve lo diranno, e questa cosa, in un libro, è bellissima): il fulcro della raccolta, intesa come tensione e come insieme. E a fine lettura quei puntini riuniti – o meglio, quegli spazi anneriti – compongono una figura assai più nera, più oscura, più arcana e disturbante, di quanto appariva da vicino.

Silvia Tebaldi

 

 

 

 

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