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Lo Amador, Roberto Burgos Cantor

Sommario

Senza voler aprire gli occhi facevo il conto del tempo che insieme eravamo qui. Le riflessioni che oggi ripetute ci fanno arrossire per quanto ingenue, copiate da un gesto estraneo.

Lo Amador, p. 73

Con la raccolta di racconti Lo Amador, pubblicata dalla casa editrice Le Commari, e alla cui traduzione ha collaborato «un gruppo multidisciplinare e bilingue» (p. 124) al fine di catturare e restituire al meglio l’essenza – che molto ha a che fare con l’aspetto linguistico – della raccolta al pubblico italiano, si aprono (finalmente) le porte della scena editoriale del nostro paese all’autore colombiano Roberto Burgos Cantor.

07 05 2018 interna robertoNato a Cartagena de Indias nel 1948 e morto a Bogotá nel 2018, Roberto Burgos Cantor è considerato – insieme a Gabriel García Márquez e Álvaro Mutis – uno dei narratori più importanti della letteratura ispanoamericana del ventesimo secolo. Giornalista e autore di racconti per varie testate giornalistiche, nel 1981 pubblica il suo primo libro, Lo Amador.

Dato alle stampe quattro anni prima dell’uscita de L’amore ai tempi del colera, questo libro compare nella scena letteraria al tramonto del “boom” ispanoamericano, di cui Cantor ne raccoglie l’eredità, ma con una consapevolezza nuova: la letteratura deve andare avanti. E lui sceglie di farlo attraverso una raccolta – il cui titolo deriva dal nome di un quartiere d’estrazione popolare della città di Cartagena – fatta da storie tra loro collegate, che vedono come protagonisti personaggi appartenenti a quelle classi sociali fino ad allora rimaste ai margini della letteratura; per rappresentarli, l’autore sceglie una narrazione corale e una scrittura che guarda alla lingua parlata: in questo modo, permette al lettore di scontrarsi con essi, senza alcuna mediazione. Sono personaggi magistralmente costruiti, unici nella loro strabordante personalità, nella loro disarmante semplicità, con le loro piccole utopie e la loro umana fragilità.

Quello che fa Roberto Burgos Cantor è essenzialmente accompagnare il suo lettore in una passeggiata, lungo le strade de Lo Amador, dove, in un giorno qualunque, si aprono i battenti del cinema Laurina, che accende i riflettori sul “quartiere argentato di luna che ha cantanti e meccanici e riparatori di biciclette” (p. 84).

Lungo quelle vie incontrerete Mabel Herrera, chiamata affettuosamente da suo padre Mabe, una ragazza con il sogno di cantare. Vive con sua madre, che del suo sogno impossibile non ne vuole sapere. Si mantengono con piccoli lavori di sartoria, dopo che il padre le ha abbandonate in quella casa fatiscente, per inseguire il sogno di diventare musicista.

Nel “quartiere argentato” vive anche il meccanico Atenor Jugada, caduto in disgrazia dopo un incidente sul lavoro, tanto simile a un José Arcadio Buendía, ma le cui visionarie idee sono purtroppo già state anticipate da qualcun altro e il cui destino è finito “per incontrarsi con la faccia stessa della sfortuna” (p.52).

Farete la conoscenza di Aracely, la reginetta che si racconta a un giornalista che spegne il registratore non appena lei gli rivela il suo desiderio più profondo.

Incrocerete l’amorevole sguardo di un ragazzo – non fatico a riconoscere in lui forse la voce più prossima a quella dell’autore – che osserva la sua fidanzata, verso cui si sente colpevole, per averla trascinata tra quelle strade; incontrerete un ragazzo nero, José Raquel, che tra quelle strade morirà.

Vi imbatterete in una cartomante che non sa più leggere il futuro; infine in Onissa, una ragazza dai capelli gialli, di cui non si è saputo più niente. Roberto Burgos Cantor vi accompagnerà lì, dove quella gente se ne sta in quell’”angolo stretto di questa terra di merda” (p. 119).

Alcuni libri sono in grado di strapparti un sorriso il secondo prima, per poi farti commuovere nell’istante successivo: Lo Amador è così. E lo è per due ragioni: la prima è quell’universalità con cui Cantor riesce a tingere qualsiasi elemento componga la sua storia, a partire dal quartiere che ospita le vicende di questi personaggi. All’interno della narrazione, sono presenti alcuni elementi, che – come hanno segnalato i traduttori della raccolta – non hanno trovato corrispondenza in italiano; se da un lato rappresentano la chiave per conferire a Lo Amador la sua unicità, dall’altro l’autore permette, in qualche modo, al suo lettore di trascenderli nella sua lettura; in questa maniera, addentrarsi tra le strade de Lo Amador diventa come addentrarsi tra i vicoli di qualsiasi quartiere del mondo e non c’è niente di più bello dell’avere la sensazione di riconoscere le proprie strade, sentirsi in quel posto con cui abbiamo un rapporto d’amore e odio, ma a cui vogliamo tanto bene.

La seconda è quella possibilità che ha il lettore di stare sempre un passo avanti alla storia; quando si scontra con le piccole utopie, i progetti di questi personaggi – verso cui, inevitabilmente, svilupperà una meravigliosa empatia – è consapevole del fatto che sono progetti destinati a fallire; allo stesso tempo sa che quelle esistenze sono destinate a essere spazzate via dal tempo, a essere ingoiate da quelle stesse strade, ma come scrive Hasbún in Gli anni invisibili, “quello è il futuro e non importa” perché una volta chiuso Lo Amador, ciò che il lettore ricorderà – o per lo meno è ciò che ricorderò io – è di essersi ritrovato immerso, anche solo per un po’, in quel meraviglioso, colorato, vivo coro popolare, diretto dalla penna di un autore, che rinuncia ai preziosismi letterari, in favore di quella letteratura che si scrive tra la gente.

Claudia Putzu

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