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L’ultimo spegne la luce, Nicanor Parra

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Quando si incontrarono per la prima volta lui già lo conosceva. Tra i due passavano una ventina d’anni almeno e quel corridoio che era il Cile, la storia del Cile, l’uno lo percorreva a ritroso, protetto dalla fama finalmente raggiunta, mentre l’altro lo custodiva – non avendolo mai veramente abbandonato – e ne segnava ancora ogni metro, ogni centimetro, con le croci nere d’inchiostro delle sue antipoesie.

Anche se nessuno poteva saperlo, quel giorno, la morte aveva già afferrato l’ombra dello scrittore giovane e la tesseva, la intrecciava con la sua, mentre il vecchio poeta le sfuggiva, le sarebbe sfuggito ancora a lungo, almeno fino a quando lui e lui soltanto, avrebbe deciso di farsi prendere, sfinito, a più di cent’anni.

Nicanor ParraParra non si era mai fatto fregare da nessuno: dall’accademia; dai premi; dalla tradizione; dalla politica e persino dalla poesia.

Era stato contro ogni cosa, spensieratamente.

Si incontrarono in Cile, dentro una casa dove, dalla finestra, si vedeva la tomba di Huidobro. Al di là della baia come una cacca d’uccello, bianca, la tomba era là. Tutta la poesia di Parra è un cimitero. Lui stesso, con la sua voce che si faceva cavernosa, diceva che nella poesia tutto era fatto di tomba, tombe e altre tombe. Arrivò a scrivere 4 sonetti per l’apocalisse dove i versi erano croci, file di croci, una dietro l’altra, illeggibile e del tutto comprensibile.

Quel giorno il grande scrittore e quel poeta, che era già parte del mito, parlarono di cose lontane, di Shakespeare e degli incidenti in India; di cibo e di amici morti.

Parlarono dei libri letti, degli scrittori che apprezzavano. Parra esigeva il Nobel per la lettura perché, scrisse: 

leggo tutto ciò che trovo:

leggo i nomi delle strade

e le insegne luminose

e le pareti dei bagni

e i nuovi elenchi dei prezzi…

per un tipo come me

la parola è una cosa sacra…

Dal canto suo Roberto, a un Cercas sorpreso di scoprire che avesse letto il suo romanzo d’esordio ignorato da tutti, disse che leggeva ogni cosa, anche le cartacce che trovava per terra e questa era una cosa che condivideva con il suo amico Papasquiaro, che leggeva persino sotto la doccia e diventarono entrambi poeti e tutto lo impararono da Parra e furono quello che furono cercando d’infilare le scarpe logore e consunte nelle impronte larghe e irregolari del vecchio maestro. Se Roberto era diventato Bolaño nel mondo e ancora lo è, dunque, lo doveva a lui, a quel vecchio che aveva scritto versi di prosa, che aveva corso lontanissimo da Neruda, da Gabriela Mistral perché nessuno li potesse confondere.

Si era ferito pur di non assomigliare a nessuno e i giovani cileni sparsi per l’America Latina erano tutti dalla sua parte.

Parra scrisse, per tutta la vita, di quelle cose che nelle altre poesie non entrano mai. Scrisse di puttane, di predicatori folli, di muratori. Scrisse del Cile, di Gagarin, di mummie, di Moai, e della vita nelle strade e di tutte quelle esperienze futili e spericolate.

Con i suoi versi voleva scolpire la pietra con la dinamite. Distruggere quello che c’era e ricostruire monumenti dalle macerie.

Salite, se vi va / scriveva / Non sarà colpa mia se scenderete / Sputando sangue da bocca e narici.

Esiste un libro, edito da Bompiani. Una raccolta dal titolo L’ultimo spegne la luce, curato da Matteo Lefèvre che queste poesie le ha anche tradotte, che forse è la raccolta più esaustiva che si possa trovare nel nostro Paese di questo poeta così straordinario.

Ci sono cose che si scrivono da sole o non si scrivono, con gli occhi appena aperti, quando la luce è ancora livida e gli ultimi fantasmi un po’ si attardano. È difficile spiegare ciò che si ama, istintivamente. Per sempre sarò grato a Lefèvre di aver tradotto queste poesie, di aver creato un ponte, un altro esile ponte con quell’America Latina mai davvero lontana, immaginando le pagine come l’invito a una festa per vecchi punk, per anarchici che hanno stracciato ogni bandiera, per giovani che hanno voglia di assaltare i treni, di assassinare i muri, per scrittori dagli occhi rubizzi e il volto scavato, che non saranno mai famosi e mai domi.

Pierangelo Consoli

 

 

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