Forse come strana fantasia politica, la letteratura argentina del XXI secolo ha preso come punto di partenza la confezione di racconti di regressione antropologica. Sotto la copertura del post-apocalittico, emergono finzioni in cui la riduzione della civiltà a una nuova tribalità mette in gioco il senso arcaico del potere, del sacro e del Male. Narrazioni che, nel loro interesse a retrocedere al momento aurorale della civiltà, restituiscono la scena fondativa e traumatica della letteratura argentina, inscritta nel racconto “Il mattatoio” (“El matadero”, circa 1838) di Esteban Echeverría e dispiegata nelle sue proiezioni mostruose verso le scritture smodate, esuberanti e abiette che riaffiorano nei mondi-mattatoio e nelle metafisiche cannibali de L’arcano di Juan José Saer, Tadeys di Osvaldo Lamborghini e Los sorias di Alberto Laiseca.
Nella letteratura argentina del nuovo secolo si potrebbe perfettamente tracciare un periplo in quattro atti, che istanzia l’avanzare di distopie mitiche architettate come campi di concentramento sperimentali. Un itinerario che va da Plop di Rafael Pinedo (Logos, 2024; trad. Federico Taibi) e Manigua di Carlos Ríos a Literatura argentina di Pablo Farrés e Le brigate di Ariel Luppino (Edizioni Arcoiris, 2020; trad. Francesco Verde), momenti che potremmo intrecciare con Germania, Germania! di Felipe Polleri (Edizioni Arcoiris, 2016; trad. Loris Tassi).
Manigua, pubblicato originariamente nel 2009, rappresenta uno di questi ritorni tanatopolitici al mattatoio primigenio dell’argentinità, ma con un accento particolare su un’utopia possibile: l’utopia del rituale come gioco gratuito, come indizio di sacralità a ogni prova.
In un territorio decimato da qualche catastrofe non specificata e dalle caratteristiche ambiguamente africane, comunità nomadi si dedicano a guerre intestine e peregrinazioni allucinate. Il giovane Muthahi viene inviato dal padre in un viaggio iniziatico: ribattezzandolo con un nome eroico della sua stirpe, Apolon, lo manda in cerca di una vacca sacra da sacrificare in omaggio alla prossima nascita di un altro bambino della famiglia. L’esuberante e onirica peripezia di questo tragitto apre un intero ventaglio di racconti incorniciati – un campionario di immagini anomale e suggestive guidate dall’”uccello fuggevole dell’improvvisazione” – dove la dimensione mitica di questi “buoni selvaggi” alla fine del mondo è sottoposta, in una mise en abyme, ai limiti della rappresentazione dell’oggetto artistico: indipendentemente dalla densità del sacro, il mito è sempre inquadrato nella museificazione feticizzata dell’arte e nella banalizzazione del colonialismo antropologico.
Plop e Manigua sono campi di sperimentazione dove, resettando il mondo, si può osservare il grado zero in cui riemerge la struttura più atavica (più antica dell’uomo stesso): lo Stato. “Quando si svegliò, lo Stato era già lì”, si potrebbe parafrasare Monterroso.
Se in Plop la sopravvivenza tribale di un mondo post-apocalittico ridotto a terra desolata si gioca nella materialità – la sopravvivenza tramite l’accumulazione capitalistica di ingestione e coito, e tramite la capacità di imporre la propria patocrazia come misteriosa origine dello Stato primitivo –, in Manigua quella sopravvivenza è del simbolo: in un mondo ridotto all’africanità delle sue precarietà materiali, il simbolo – e la sua escrescenza germinale di base: il mito – raggiunge la massa critica del suo valore. Per Ríos, nessuna azione è priva di una dimensione rituale che le conferisca il suo segno ultimo, la sua definizione. Quando il padre di Muhtahi lo invia in un viaggio alla ricerca di una vacca sacra da sacrificare come ecatombe per una nascita futura, il rito non si compie per abilitare la nascita del figlio. Si genera un figlio per giustificare la realizzazione del rito. I fatti del mondo materiale esistono unicamente per giustificare l’ordine mitico che li illustra.
Notevole, in questo senso, è l’ambiguità con cui si sfugge a ogni certezza offerta dal sottogenere della “narrativa post-apocalittica”. Si abbozza un mondo successivo a un collasso, un mondo più africanizzato che propriamente africano. E nel percorso si costruisce uno spazio attorno al quale seminare le ambiguità di un mondo sublimato in un caos di associazioni oniriche, nel cui intreccio d’immagini si compone un oggetto quasi talismanico.
Ogni opera, non importa quanto astratta o distorsiva possa sembrare, è una fantasia politica. Nell’immaginario argentino d’inizio XXI secolo, con il crollo del miraggio neoliberale, la questione della comunità e della legittimità dello Stato diventa cruciale. Il nomadismo sintomatico di Manigua parla dell’africanizzazione dell’Argentina – la distopia latinoamericana della villa miseria e della favela – e, per estensione, dell’imminente africanizzazione congetturale del mondo intero, dove lo swahili può diventare lingua universale. Manigua è anche un’opera sull’origine del linguaggio e, insieme, sull’origine della letteratura: “Nella filigrana swahili di São José dos Ausentes, Apolon cattura il filo di un’identità a rischio, sul punto di essere annientata. Il sacro, la lingua, fanno parte anch’essi di questo mondo.”
Non conta tanto la fascinosa circolarità antropologica con cui il cammino dell’eroe conduce dal fango al fango, quanto gli elementi sacri che sgorgano dal sottosuolo psichico lungo il percorso. Ciò che funziona qui, sotto il segno di favole incorniciate in lande desolate di collassi non detti, è un territorio speculativo. Congetturare i modi in cui è possibile o meno la fattibilità della comunità umana. Pinedo è fatalista – Plop stabilisce che i legami tra comunità e realtà sono ancestrali e schizofrenici, e che la politica comunitaria è assediata dal potere patocratico –, ma Ríos risulta quasi utopico: in mezzo alle rovine di un’“antropologia del disastro”, come lui stesso definisce il suo romanzo, è possibile almeno la spettralità del racconto. Per Ríos, la sopravvivenza dell’umano va oltre il collasso per proiettarsi nella gratuità del sacro: lo spreco inutile del rituale come strumento sufficiente a giustificare la perpetuazione dell’umano dopo la Fine.
La questione della comunità si decide dunque nel ritorno alla tribù – quel termine che circola anche come parola d’ordine nella scrittura di Héctor Libertella (cfr. L’albero di Saussure, Ed. Arcoiris, 2024, trad. di Annabella Canneddu) – e nello scambio di merci sacre. La tribù, o come dice Ríos, quel “clan disgregato, un episodio anteriore alla nascita del concetto di cittadinanza”, concentra in sé, come unità predifferenziale di civiltà e barbarie, tutta la tensione tra tabù e rituale.
Il progetto letterario di Ríos sembra fondarsi sulla propria incertezza circa il senso che può conquistare una scrittura, motivo per cui preferisce esplorare la forma del rituale, ma mai chiuderne il significato. Manigua è la formulazione mitica di un viaggio iniziatico, ma non esibisce la chiusura categoriale che fa del mito una struttura circolare, bensì la lascia fluttuare in linee di fuga.
In Cuaderno de Pripyat, il sacro viene portato nel desolato paesaggio post-nucleare di Černobyl, e ci troviamo nel territorio ludico-mutante e cerimoniale dello Stalker di Tarkovskij. Nelle prigioni di Rebelión en la ópera e Falsa familia, la topologia claustrale trasforma il racconto carcerario in una sorta di grande palazzo delle apparizioni o di giardino dei giocattoli rotti. Nel corso della sua opera strana e dispersa, tra narrativa e poesia, Ríos costruisce un programma barocchizzante, abbagliato dalla propria potenza di esigere dalla scrittura una lettura decifrante. La messicanità dichiarata di Manigua – la sua palese parentela con la peregrinazione mortuaria di Pedro Páramo, il suo walkabout per il deserto simbolico alla maniera di El Topo – giustifica la continuità evidente con la poetica ritualistica di Mario Bellatin (Salone di bellezza, La Nuova Frontiera, 2011, trad. di C. Muzzi; Shiki Nagaoka: un naso di finzione, Autori Riuniti, 2021, trad. di Vittoria Martinetto; Poeta cieco, Edizioni Arcoiris, 2022, trad. di Raul Schenardi; Dama cinese, Editori Riuniti, 2007, trad. di M. Nicola), per non parlare delle parentele profonde con i progetti di espressionismo grottesco dell’uruguaiano Felipe Polleri (Germania, Germania!, 2016; Le poltrone appassite, Edizioni Arcoiris 2020; Grande studio su Baudelaire, Wojtek Edizioni, 2024) e Alberto Laiseca (Avventure di un romanziere atonale, 2013; Uccidendo nani a bastonate, 2017; È il tuo turno, 2017 per Edizioni Arcoiris, e Grazie Chanchúbelo e Per favore plagiatemi!, 2023 per Wojtek Edizioni).

Carlos Ríos: uno scrittore che invece di ascendere nella visibilità culturale e avanzare nel cursus honorum del mercato editoriale, si ritira volontariamente in un cono d’ombra sempre più recondito, pubblicando in Argentina presso case editrici via via più periferiche, fino a diventare, dopo esser stato al centro della critica con i suoi primi romanzi, editore di sé stesso in un’esperienza editoriale assolutamente underground, resistente a ogni forma di cooptazione commerciale – Oficina Perambulante –, composta da un catalogo di opere rilegate artigianalmente in cartone riciclato: la casa editrice personale di un autore che fabbrica libri, un autore che prima ha scritto e poi ha mescolato le pagine di Manigua come un mazzo di carte. L’antropologico, il tribale come metodo. Una scrittura dove l’elemento narrativo sembra improvvisato affinché sopravviva la poesia. La sperimentazione, se esiste, è il modo per rendere il racconto qualcosa di completamente sconosciuto. Come in Laiseca, dietro i mondi primitivi di Ríos si cela la questione di come salvarsi.
Manigua fa ancora parte di quella vasta massa di strana letteratura argentina non ancora tradotta – quel Sancta Sanctorum della più arcana letteratura argentina ancora indecifrabile nella sua arcana eccentricità: Ricardo Zelarayán, Jorge Di Paola, Ricardo Colautti, Marcelo Fox, Pablo Farrés… Carlos Ríos – che, sottrattasi alle formule del mercato “for export”, giace accantonata nella tana del coniglio monolingue degli esperimenti ambiziosi e delle epopee intraducibili.
Agustín Conde De Boeck













