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Ma quello che ho appena detto non è così semplice,

perché la memoria è impregnata di immagini che

al minimo tocco con la materia si presentano davanti a te

con la devastante realtà dell’assenza,

di ciò che mancherà sempre.

 

Nella cucina di una protagonista senza nome, c’è una porta sul retro che dà sull’immenso giardino a ridosso della casa. Gli alberi impediscono l’infiltrarsi della luce del sole e durante la notte è una distesa buia all’aroma di limone. Al centro, un tirassegno rimasto lì da non si sa quanto tempo, una bambola rotta che si schianta su di esso, a seguito di un tiro istintivo che rompe il silenzio.

Un’immagine descritta nei minimi dettagli. «Sarebbe stato facile leggerla come una metafora», ma non lo è; il romanzo di una delle voci più importanti del panorama ecuadoriano contemporaneo, Gabriela Ponce, con il quale ha vinto il Premio Gallegos Lara, non lo è.

Mónica Ojeda, scrittrice conterranea e particolarmente amata in Italia, parla di una prosa selvaggia, piena di «passione, desiderio e dolore».

Gabriela PonceCon Sanguigna, edito Cencellada Edizioni nella traduzione di Sara Papini, Ponce dà prova di una penna piena, sapiente, riconsegnando il perfetto ritratto del periodo successivo a una frattura amorosa: dopo anni di condivisione e progetti, il matrimonio tra la protagonista e suo marito, anch’egli senza nome, è giunto al termine, per lasciare spazio al racconto di una donna alle prese con il dolore di quelle assenze che continuano a tornare, dalle camicie che si intravedono nell’oscurità dell’armadio ai piccoli lampi che infrangono la monotonia di un istante, mentre si destreggia tra le piccole azioni quotidiane, il lavoro, le visite ai genitori, per sopravvivere al tempo e incontri occasionali con altri uomini.

Si finisce per ritrovarsi in una costellazione che riunisce amore, assenza, dolore e desiderio, in un racconto che si alterna tra i ricordi della vita matrimoniale e dei rapporti fugaci e il tempo presente, non per scandirne il tempo, bensì per creare una sorta di realtà in simultanea in grado di dare vita a una narrazione in prima persona, fluida, ma terrosa, che si sviluppa sullo sfondo degli spazi che compongono il romanzo, in cui lo sguardo della donna si perde, per aggrapparsi infine a un compendio di forme imperfette, frastagliate e fallibili – i corpi, le pareti delle cosiddette grotte, gli alberi, le foglie – e di oggetti – i pantaloni gettati a terra, le fotografie, la radio, il sapone – che scorrono insieme sul letto di un fiume impetuoso, il cui flusso smuove i detriti di un passato depositatisi al di sotto di pensieri che invece viaggiano liberi, alla ricerca di una perduta organicità.

Il sesso si rivela un’esperienza sensoriale totalizzante, ma non distruttiva, «come un qualcosa che attraversa la foglia, ma non la uccide», di per sé in grado di spalancare una finestra su una lettura inedita della sofferenza, non intesa come una parentesi monocolore, bensì come un incastro di sensazioni che attingono da più sfere dell’interiorità, scoprendo a chi legge una dimensione caleidoscopica, frutto di una comunicazione di elementi che esondano e che al contempo riconnettono la protagonista a un’esperienza profonda, quasi primordiale, riflessa nella scelta lessicale compiuta dall’autrice, la quale si abbandona a un processo di scrittura che, al ritmo del battito di un cuore tormentato, restituisce una rilettura vivida e profonda del corpo femminile, nel mentre conferisce a ogni aspetto del romanzo la sua corporalità.

Il corpo diventa una superficie porosa: come il tocco gentile e insicuro dei polpastrelli delle dita, la penna di Ponce ne descrive attentamente ogni centimetro, osservando quei pori sulla pelle che si dilatano, godendo delle vibrazioni benefiche del tocco altrui, del peso di altri corpi, con i quali si fonde; che si ritraggono al freddo della logorante attesa: gli sfinteri, tutti gli sfinteri del corpo, che ora so essere più di cinquanta, si chiudevano, sfere stringevano i muscoletti e io cominciavo a mangiarmi le dita. Le mani sono le estremità in cui ogni sensazione culmina e brucia; primo punto attraverso cui si diramano i tentativi dei personaggi che a ella ruotano intorno: L’acqua che entra dai miei buchi insieme a quelle dita per addolcire i miei organi; prime destinatarie di quella violenza che, negli anfratti della solitudine, quelle sensazioni cerca di annullarle, tirando via le cuticole l’unghia rimane senza alcuna protezione per ritrovarsi senza difesa di fronte al dolore.

Anche quest’ultimo diventa corpo, un corpo estraneo: L’aspetto simile e quello diverso di quel dolore che a volte mi diventava estraneo, come se il nucleo del mio essere entrasse in un processo violento di disintegrazione, mostrandomi che non c’era nulla: nessun centro, nessuna possibilità di identificarmi.

A delinearsi sono dunque i contorni di un mondo spezzato, in cui si raccolgono man mano i frammenti di un’identità ora aliena a quel collante che la teneva insieme, per mano di una penna delicata che però non indietreggia, di fronte alle parti di maggiore intensità e intimità, in cui la nostalgia si esprime nella sua voce più dolce e viscerale, dove non ci sono corpi. Ci sono gli elenchi, a passare in rassegna tutto ciò che si è vissuto insieme: le biciclette, le cene in famiglia, le risate con gli amici, i segreti, le colazioni. Ci sono gli spazi, «sono ascensori, sono scompartimenti, sono boschi e terra, sono quattro aerei […] sono letti, sono campi e sono ristoranti e sono librerie», le banalità; quello che si è stati l’uno accanto all’altra ciò che mancherà di più, e di quel caleidoscopio si finisce al centro, il quale assume l’anatomia di uno strappo, dove sono racchiuse le ombre di tutto ciò che resta, ma che non può tornare.

Claudia Putzu

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