A me la poesia
viene da mia madre
che più di ogni altra cosa fu sarta
(Rafael Castillo Zapata)
Dal terzo lunedì di settembre penso molto ai libri. Penso soprattutto a vari titoli: Puros hombres di Antonio Arráiz; Peonía di Manuel Vicente Romero García; Cubagua di Enrique Bernardo Núñez; le Novelas ejemplares di Cervantes; I dolori del giovane Werther di Goethe; País portatil di Adriano González León, e Residenze sulla terra di Neruda.
Posso vedere le loro copertine, accarezzare la carta ossidata, immaginare le mani, le dita che sfogliarono quelle pagine prima di me. Non sono sicuro di avere quei libri nella mia biblioteca a Madrid, e sinceramente ora non ho la forza di controllare.
Conservo i dettagli: i colori vivaci delle copertine, i caratteri.
Da bambino non mi sono mai mancati i libri: arrivavano in abbondanza con il loro odore fresco e le pagine satinate; fiabe russe, leggende, storie con personaggi remoti e affascinanti. Ma dal terzo lunedì di questo settembre penso solo a questi titoli, come se il resto delle parole del mondo si fosse ammutolito.
Li trovai un mese di agosto, conservati nella parte alta dell’armadio, dove arrivai grazie a una scala gialla che esiste ancora in casa. Ricordo con nitidezza il momento: il mio stupore, il modo in cui li pulii dalla polvere e vi scrissi il mio nome, il timore nascosto che provai salendo su quella scala. Ricordo anche le parole che mi disse mia madre quella sera, quando le parlai della mia scoperta: “Sono per te; li conservo da anni per te”. Qualche giorno dopo, seppi anche che aveva custodito molti numeri della rivista “Imagen” e della “Revista Nacional de Cultura”, che mi consegnò quel fine settimana.
Mi piacerebbe ora tentare un saggio in cui si accumulassero impressioni su quelle letture: i loro primi aggettivi, la prosa, la silhouette dei personaggi; ma ora conservo solo l’essenza materiale, la forma concreta, l’odore ormai affievolito di quei volumi. Le idee mi hanno abbandonato; trattengo solo immagini: uno strappo nella carta, una macchia scura nelle ultime pagine, l’errore di stampa sul dorso di Peonía (ci misi un po’ a capire che non esisteva un autore chiamato Romerogarcía), il crepitio delle pagine. Ma l’unica cosa che conservo è lo stupore: lo sguardo di quell’anno (1978?) quando ottenni quel tesoro, una scoperta collocata in alto, come se fosse un segreto custodito nella cima di un albero.
Certo, penso anche a La máscara, la transparencia, il saggio di Guillermo Sucre nella sua edizione del Fondo de Cultura Económica. Lì la memoria è ancora più tangibile. Fu un regalo di mia madre alcuni anni dopo, con una lunga dedica scritta da lei con inchiostro blu. Potrei alzarmi e leggere cosa scrisse in quel momento, ma anche questo richiede una forza che per ora non è tornata, o alzarmi per osservare con calma i trenta volumi della Biblioteca Ayacucho che mia madre portò un pomeriggio, carica di scatole, entusiasmo, Vallejo e Popol Vuh.
È tanto ciò che potrei fare e non farò. Dal terzo lunedì di settembre mi è difficile mettere insieme le parole; le vedo lì, lontane; come se fossero sempre state distanti. Le immagino disperse in quei libri d’agosto; le vedo in quei documenti che mia madre scriveva ore e ore alla macchina da scrivere per pagare le bollette, il mutuo, la spesa , i molti libri, i corsi di lingue e gli strumenti musicali con cui non ho mai combinato nulla di utile.
Le parole non ci sono più, ma risuonano nelle vibrazioni della tua macchina da scrivere, mamma, e nelle tue tante ore di straordinario per farci arrivare a fine mese.
Nelle storie si parla sempre di chi scopre il tesoro, di chi trova e disegna le mappe, ma si parla meno di chi ha preparato il tesoro, di chi l’ha raccolto, messo nel luogo esatto affinché fosse scoperto e assaporato. Un tesoro di carta che fu uno dei tanti tesori che hai dato, che hai conservato per altri. Un tesoro fatto con le tue dita che battevano a macchina da molto presto fino a molto tardi perché nulla mancasse, perché tutto fosse rifugio, sollievo e bellezza.
Ora, da quel lunedì lungo che sarà il lunedì più lunedì di tutti i settembri, sono la parola degli altri. Per questo mi siedo sulle panchine delle piazze di cui ignoro il nome e poi sussurro: “A me la poesia viene da mia madre, che più di tutto fu dattilografa”.
Juan Carlos Méndez Guédez
Juan Carlos Méndez Guédez è uno scrittore venezuelano nato nella città di Barquisimeto e trasferitosi a Caracas con la famiglia in tenera età. Ha conseguito una laurea presso l’Universidad Central de Venezuela con una tesi sui gruppi poetici “Traffic” e “Guaire”. Successivamente ha ottenuto un dottorato in Letteratura Ispanoamericana presso l’Università di Salamanca con una tesi sullo scrittore venezuelano José Balza.
Ha pubblicato numerosi libri, tra cui romanzi, raccolte di racconti e saggi. Vive in Spagna, paese in cui ha scritto e pubblicato la maggior parte delle sue opere. Alcune sue opere sono state pubblicate in Svizzera, Francia, Bulgaria, Italia, Slovenia e Stati Uniti.
In Venezuela, i suoi testi fanno parte di due recenti antologie di racconti: Las voces secretas, pubblicata da Alfaguara, e 21 del XXI, distribuita commercialmente da Ediciones B. È stato invitato a numerosi importanti eventi letterari internazionali come la Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, la Fiera di Santiago del Cile, il Festival eñe di Madrid, e ha tenuto conferenze presso università e istituzioni in Algeria, Colombia, Croazia, Spagna, Francia, Svizzera, Venezuela e altri paesi.