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Voglio essere il cartone animato

di un romanzo che non arriva mai.

Felipe Becerra CalderonTapa Kraft Moleskine, 80 pagine numerate. Questo è il modello di quaderno adoperato dal giovane Felipe Becerra – come lui stesso racconta – da quando si è trasferito a Parigi. Classe 1985, l’autore cileno rappresenta una delle voci più interessanti del panorama letterario latinoamericano: il suo primo romanzo, Bagual, nel 2006, è stato insignito del premio Roberto Bolaño per la letteratura giovanile, la sua opera acclamata dalla riconosciuta critica Patricia Espinosa. Grazie alla traduzione di Loris Tassi, arriva finalmente in Italia, per sommarsi alle penne che compongono la collana “Gli Eccentrici”, edita da Edizioni Arcoiris, con il suo Il prossimo romanzo, al cui interno è racchiuso un compendio di testi, tra loro separati da asterischi, che sono la trascrizione dei quaderni in cui si raccolgono le annotazioni di otto anni, dell’autore che – in un quadro più ampio – si affianca alle voci letterarie contemporanee dall’America Latina che in diversa misura si potrebbero accostare a questo genere, da Barrera a Lozano, passando per Guerriero, la cui menzione inizia già a mostrare una lieve forzatura; tra di loro molto diverse (non solo da un punto di vista tecnico, bensì, banalmente, da un punto di vista tematico e di pubblico a cui si rivolgono) ma che ben rende al lettore l’idea della labilità e della non uniformità di una forma di scrittura che recupera un’organicità, una sua dimensione materiale, solo nell’oggetto da cui prende il nome.

Continuando su questo tracciato, sulla sottigliezza dei confini di essa, vi è una premessa, molto cara allo stesso Becerra e che questa lettura richiede, tesa a chiarire la distinzione tra il quaderno e un altro genere a cui esso spesso ed erroneamente si associa: il diario.  La differenza sostanziale tra i due, forse, risiede nell’inclinazione autobiografica di quest’ultimo che enormemente comprime lo spazio di riflessione che il primo riesce, invece, a ritagliarsi e che dal suo canto si rivela in grado di fondere la soggettività dell’esperienza personale, con una sfera riflessiva, il cui oggetto, nel romanzo in questione, è la scrittura stessa, a partire dalla quale viene a delinearsi un discorso che unisce pratiche di vita quotidiana ed elementi tecnici che accompagnano chi scrive nella stesura di un testo; entrambe le parti in una irrisolvibile relazione di interferenza. Mi viene in mente che l’annotazione stessa sul quaderno, a differenza di quella sul diario, è indice più di un differimento costante che di una testimonianza. I diari sono un genere; i quaderni tutto il contrario.

Il racconto inizia da uno spazio ristretto, una scrivania. Il narratore è alle prese con la scrittura del suo prossimo libro: ha a disposizione i suoi appunti scritti su un quaderno, che dovrebbe iniziare a trasferire su Word. Scrivere è un processo lungo e silenzioso, che crea una sala d’attesa – come scrive nel suo Quaderno ideale l’autrice messicana Brenda Lozano – ossia la fase in cui la scrittura è ancora libera da quell’istanza che la imprigioni e per mezzo della quale si inserisce poi nel mercato editoriale. Nel romanzo di Becerra, in tale fase, i verbi riconsegnano l’idea di un qualcosa che ritarda e che si dilata e vi è solo un alleato accanto allo scrittore: inevitabilmente, il tempo, che gli dona uno sguardo – si perdoni il voluto gioco di parole – senza tempo, nell’osservazione del mondo circostante: le case che cambiano e ripostigli aperti dopo tanto tempo; le vecchie foto e la rivista degli anni universitari; la scena culturale che si evolve lasciando spazio a nuove e giovani voci; i disegni che si intromettono tra le parole; la città che entra nelle pagine; lo spazio che si ricrea tra le pagine. E in tanto folto fervore di cambiamento, l’idea di una scrittura fissata nel tempo dalla carta stampata è un concetto manchevole; di contro, la scrittura sul quaderno porta con sé una sensazione di mobilità data da correzioni, cancellature, riscritture e sbavature, senza contare forse la cosa più importante, ovvero il riflesso involontario delle annotazioni: il guardare ai piccoli eventi.

Nella Germania di metà Settecento, anche uno dei più grandi autori che il mondo abbia mai conosciuto scriveva annotazioni su carta che altro non erano che frammenti di quello che sarebbe stato il suo capolavoro; lui era Goethe e il libro era il Faust, la cui mole è ingannevole, poiché anch’esso all’effettivo ruota attorno ai piccoli eventi, chiavi per accedere ad altre dimensioni, che coincidono con gli angoli più reconditi della mente di uno scrittore e conferiscono al suo lavoro – come scrive Vial nel suo puntuale articolo – un’aria di trascendenza, per condurlo in un altro luogo; per Becerra, quel luogo somiglia alla soglia di una porta, dove sceglie di soffermarsi per contemplare dall’esterno gli elementi che compongono la finzione narrativa; una soglia in cui si assiste a un dialogo non dichiarato con alcuni autori che lo hanno preceduto, tra essi grandi nomi della letteratura ispanoamericana che condividono con lui questo tratto, per restituire al lettore il ritratto di un’esperienza che trova voce solo in un compendio di note talvolta sconnesse tra loro a preannunciare un romanzo il cui inizio non arriva mai, riluttante alla conclusione.

Claudia Putzu

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