«Andrea dovette sentirsi smarrita quando si svegliò per morire. Gli occhi, di colpo spalancati, avranno sbattuto le palpebre diverse volte nei due o tre minuti che impiegò il cervello a rimanere senza ossigeno. Smarrita, incerta nel ticchettio della pioggia e nel rumore del vento che spezzava i rami più sottili degli alberi del cortile, rintronata dal sonno, completamente disorientata».
L’Argentina, così grande, così ampia. L’Argentina, nuovamente, nonostante, l’Argentina solamente. Una volta l’Argentina in un libro di Andrés Neuman (Sur, traduzione di Silvia Sichel) e per sempre l’Argentina, piatta, sconfinata, oltre Buenos Aires, oltre i margini di cui parlava Borges, oltre la città. L’Argentina dei paesini, delle campagne, delle pianure. L’Argentina altra, nascosta, terribile, bellissima, sconsolata, sperduta e perduta. La provincia argentina col suo carico di ingiustizia sociale, di pena, di solitudine, di apatia, con un panorama dove il riscatto cede al dolore, alla morte. La provincia che nasconde ogni cosa, che occulta prove, che domina e regna con il silenzio di tutti. La provincia come simbolo di un tempo desolato. Laggiù, in quelle terre, la meravigliosa scrittrice Selva Almada è nata – a Villa Elsa, in quella desolazione – e là ritorna per scrivere il bellissimo Ragazze morte (Polidoro, 2025, traduzione di Giulia Zavagna).
«Forse la tua missione è questa: raccogliere le ossa di quelle ragazze, ricomporle, dar loro voce e poi lasciarle correre liberamente, dovunque debbano andare».
Un libro che è molte cose. Almada parte da tre storie vere, tre adolescenti uccise in circostanze misteriose. Tre femminicidi senza colpevole. Almada scava, va al cuore di queste storie, di queste vite. Parte dai nomi. Andrea Danne, una ragazza di 19 anni uccisa a pochi chilometri dal suo paese natale, di domenica, mentre suo padre sta preparando l’asado. E poi, Maria Luisa Quevedo, una domestica di 15 anni, uccisa, dopo essere stata stuprata, con i resti abbandonati in una discarica. E, infine, Sarita Mundin, una prostituta di vent’anni, scomparsa nel nulla e mai più ritrovata. I tre delitti sono stati compiuti negli anni Ottanta, Almada è nata nel 1973, nel 1988 quando sparisce l’ultima delle tre ragazze ha quindici anni, quelle storie non l’abbandonano nemmeno nel tempo in cui cresce e scrive i suoi bellissimi romanzi – il più recente è Non è un fiume, edito da Rizzoli – crescono dentro di lei e la portano a indagare, che non vuol dire fare un reportage di tipo giornalistico, ma qualcosa che passa dalla narrativa al saggio, dal memoir a quella terra di mezzo chiamata crónica, che – sulla scia dell’immensa María Moreno – concede spazio alla bellezza ampliando il campo del vero, ovvero l’inserimento dell’immaginazione, o, come direbbe, Rodrigo Fresán, il ricorso alla parte inventata, che non è mai la parte disonesta ma è quella che trasforma un fatto da così come è a raccontabile. La storia della letteratura è tutta qui.
«Credo che l’unica cosa da fare sia tentare di ricostruire come il mondo le guardava. Se riusciamo a sapere com’erano guardate, scopriremo qual era lo sguardo che loro stesse avevano sul mondo, capisci?».
Selva Almada segue le piste, va all’indietro, intervista chi c’era, vicini, conoscenti delle vittime, medici legali, investigatori, passanti. Prende taxi verso posti sperduti. E poi inserisce la parte intima, i ricordi personali. Prima ancora di un ritratto delle tre ragazze, viene fuori il ritratto di un’Argentina poco conosciuta che è rimasta a metà strada tra la campagna e l’urbanizzazione, impantanata in uno dei suoi paesaggi lacustri, a volte belli, altre inquietanti. Selva Almada è bravissima a inserire qua e là elementi che vengono da altre cronache, a far entrare nel racconto le sue chiacchierate con una cartomante, che sono interviste sognate, parole che occorrono per radunare le ossa delle scomparse, per fare breccia dentro sé stesse.
Tre ragazze morte ammazzate molti anni fa, i colpevoli mai ritrovati. Eppure, basta leggere queste pagine, basta immaginare ed entrare nel cono di luce che Selva Almada accende su Andrea, Maria Luisa e Sarita, per provare empatia, per tentare la strada della comprensione. Entrare così in un territorio in cui la violenza di genere è prassi, in cui la società è complice. Per Selva Almada in quel contesto la violenza sulle donne è sempre stata naturale, una cosa che succede, e perciò se c’è un delitto ci sarà la corsa a coprirlo. Ragazze morte è scritto da una persona ma agisce con le regole del coro, e le voci rintracciate da Almada contribuiscono non tanto a far luce – i delitti rimarranno irrisolti – ma a riportare per qualche istante tra noi le tre donne, e le storie di altre migliaia, centinaia di migliaia di donne, massacrate in silenzio nelle zone rurali dell’Argentina e ovunque. Ecco che questo libro ci riguarda e ci scalfisce, ci tocca, se è vero quello che scriveva il poeta Milo De Angelis, in te si radunano tutte le morti, nelle storie di queste tre ragazze si radunano tutti i femminicidi, tutte le storie che finiscono con una ragazza scomparsa, di cui non sapevamo nulla, di cui non sapremo nulla.
«Dicono che quando uno se ne va dal cimitero, non deve guardare indietro per nessun motivo».
Non c’è un luogo sicuro, pare dirci Selva Almada, ne esiste uno in queste pagine che offre conoscenza, empatia, l’opposto della solitudine, un minimo di conforto, uno sforzo letterario contro l’indifferenza, e – per sempre – contro la morte.
Gianni Montieri













