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So che è contraddittorio, ma la sua prigione mi libera.

Che stupore, una frase che hai letto giorni addietro riemerge, riaffiora e la porti con te senza volere, senza sapere o chiederti perché, e forma come dei cerchi nell’acqua.

C’è un racconto dal titolo “Ti ho chiamato tante volte”. Chi parla è una bambina. Cerca la lucciola, il cocuyo, che volava ieri sera attorno al suo letto. Dicono che i cocuyo sono angeli che vengono di notte a proteggerci. Io voglio crederci. Vuole chiudere la lucciola in una scatola: ho fatto due forellini sul coperchio, così non soffoca. In questo modo, potrà accendere le sue luci quando vuole e vegliarmi da dentro. […] So che è contraddittorio, ma la sua prigione mi libera.

Oggi è un giorno in cui odio le parole. Uno dei giorni in cui – come molte di noi in questo tempo – sento un fastidio acuto per le cosiddette arti della parola: belle lettere e slogan, le news e i social, la macchina narrativa e demagogica, la lirica e il dramma e l’epica, oggi tutto mi duole e non voglio leggere né scrivere. Eppure c’è un dolore diverso, una scheggia inspiegabile: c’è questa frase – So che è contraddittorio, ma la sua prigione mi libera – e questa bimba chiusa in camera, nell’età in cui ci si avvede che ci sono, che esistono, dei segreti. Che in casa ci sono strappi, prigioni, sparizioni.

Nel trascorrere del giorno, quella frase riappare. Non come un mantra o una benedizione: piuttosto come un riff, ciò che in musica si chiama un ostinato. Come cerchi nell’acqua. Così accade che io riapra il libro, per rileggerla, e appare un’altra frase:

Se ne andarono tutti poco a poco. Solo io, il più grande degli zii, sono rimasto qui sulla terra, con la calma che gli dèi mi hanno sempre concesso. Sono la vela e sono la canna, il timone che custodisce i ricordi, il remo che attraversa le nostalgie. Sono colui che tiene il corso di queste storie perché sono stato lì, dentro di esse, sul pavimento freddo della prigione, zampillando nel mare, nella gioia effimera di quella libertà mendace, nel palmo e nel suo rovescio, nel rumore e nel silenzio.

Nemmeno questa frase mi lascia più. Diventa quasi come un talismano. Così, provo a scrivere di un libro e di una voce.

Minerva del RiscoLa voce è quella di Minerva del Risco, scrittrice, promotrice culturale e giornalista dominicana. Il libro raccoglie diciotto racconti brevi, tra i quali Ti ho chiamata tante volte: quello in cui una bimba vuol catturare una lucciola, quello che dà il nome alla raccolta. In copertina e all’interno, illustrazioni a matita (di Irina Miolán) che insieme con i racconti generano qualcosa che ha, per me, la natura dei talismani. Te llamé tantas veces, pubblicato nella Repubblica Dominicana nel 2021, vede ora la luce in traduzione italiana, a cura di Barbara Flak Stizzoli, nella collana Caribe delle salernitane Edizioni Arcoiris.

In alcuni racconti la voce narrante è una bambina, nell’età in cui si chiama tante volte, invano, e ci si avvede dell’esistenza dei segreti, dell’ombra che si allunga mentre lei dice delle zie, dei nonni, di cani e maialini e lucciole, di Ercilia che aiuta in casa poi sparisce, di una gatta di nome Lucía. Di una casa a Macorís, in Repubblica Dominicana. In altri è una voce adulta, a New York in tempo di pandemia, che parla con calma e assieme con furia – so che è contraddittorio, contraddizione bellissima – dall’entropia di questi anni. In un racconto è un uomo di novant’anni, “il più grande degli zii” e il solo sopravvissuto tra loro: nella sua voce è la storia di una famiglia dominicana, i modi di sparire, il passare di anni e di decenni, le azioni politiche clandestine contro la dittatura di Trujillo, gli strappi, i segreti –Nessuno sapeva che eravamo coinvolti, neanche le ragazze che erano sempre così attente a noi. Così è l’amore, nasconde il pericolo, racchiude verità e non smette di essere la nebbia dove seppelliamo la paura.

E c’è un racconto in cui la voce si sdoppia, il piano temporale oscilla tra presente e passato e con la bambina c’è suo padre. Appare un uomo, che lo chiama per cognome: il padre della bimba è René del Risco, importante scrittore dominicano, nel tempo che precede – e di pochissimo – la sua morte prematura. Alcuni istanti assieme, una bambina di undici anni e il padre poco più che trentenne, e un tempo che diventa gli anni, la memoria, il sempre della vita.

E nel racconto dell’uomo novantenne c’è una dedica autoriale, “Al mio caro zio Culí”, e Culí è il soprannome che porta il vecchio. Dunque, la bambina è Minerva. E allora, anche la bambina degli altri racconti è Minerva, è Minerva bambina, ed è Minerva adulta che guarda il cielo di Manhattan, che vola prima che chiudano le frontiere, che guarisce dopo una terapia.

Di ciò mi accorgo come con sorpresa. Eppure, già prima di aprire il libro, dalla nota di quarta già sapevo che contiene memoria, il ricordo di René e della bisnonna Chela, di zio Culí e del nonno Miguel. Da dove arriva, dunque, la sorpresa?

Da quei cerchi nell’acqua, penso ora.

Se Ti ho chiamato tante volte è un atto di memoria, la forma di questo atto è come cerchi nell’acqua, come tessere di mosaico, come un campo di frammenti, una sequenza di forme brevi sulle rovine del passato. La scrittura brevissima, la scelta di non coagulare in un romanzo – in una finzione prospettica – ma di tessere ogni breve racconto nella sua propria pienezza, come arazzo e mosaico e talismano, tessitura di lingua e di memoria. La pulizia della lingua, quieta e furiosa assieme. La nuda ambientazione caraibica, senza idolatria e senza stereotipi. La messa a fuoco mai casuale, mai di fretta, mai ovvia. Da qui quella sorpresa, per me, e il ricordo de Il fuoco e il racconto di Giorgio Agamben, là dove è detto che ogni racconto è memoria della perdita del fuoco: che chi scrive si muove nel buio, tra dèi superi e inferi, ed è la lingua a permettergli di misurare man mano la sua distanza dal fuoco: “Scrivere significa: contemplare la lingua”. Nei giorni della nausea del linguaggio, le frasi talismano ci accompagnano.

Le teniamo con noi, come pietruzze o sassolini o fagioli – i nostri talismani dell’infanzia – per fare realtà nei tempi duri: Uno di quei giorni, tornando con il mio sacchetto di fagioli, trovai un ritratto appeso a una delle pareti del piccolo salotto di casa mia. In quel momento non sapevo chi fosse quell’uomo, ma, prima che potessi chiedere, mamma mi disse che si chiamava Trujillo, e che se in cielo comandava Dio, nella nostra fetta di terra lui era Il Capo, per questo dovevamo tenerlo dove lo si potesse vedere, nella sala da pranzo, nella stanza e perfino davanti casa. L’importante era che fosse sempre presente. Quel ritratto non mi piaceva, mi faceva persino paura vederlo con quel cappello che sembrava piuttosto la coda di un coniglio arrotolata sulla testa. Inoltre, aveva la bocca così storta che pareva sorridesse a metà. Allora, mi venne in mente di infilzare alcuni dei fagioli che avevo tolto dalla ciotola […] Formai un sorriso bellissimo e lo incollai alle labbra storte del ritratto di Trujillo.

Sia Claudia Putzu introducendo la raccolta, sia Andrea Corona nella postfazione, menzionano tra gli altri Walter Benjamin: Corona evidenzia, nell’opera di del Risco, il segno di quella medesima affinità tra tempo e reversibilità che Benjamin rintracciava in Proust – da un lato l’esperienza vissuta, da un altro la memoria involontaria; Putzu rileva come luoghi e personaggi della raccolta si ritrovino, nel corso del tempo, con il mutare dell’età, osservati con lenti diverse, e in tal senso rammenta i “giorni del ricordo” delle benjaminiane Tesi di filosofia della storia.

Provando a scrivere di questo libro, della contraddizione tra il mio stupore e la conferma che il cuento breve ben temperato assume – nei giorni duri, nei giorni del ricordo – una natura di pietra e di seme, di cerchi nell’acqua e talismano, non riesco ora a non ricordare l’Angelus Novus di Paul Klee e di Walter Benjamin, che così spesso in questi giorni appare, l’angelo della storia con il viso rivolto al passato: “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”. Il ricordo di quest’angelo incontra, per me che un tempo scrivevo di luoghi, quel misterioso libro di luoghi che è Terre piatte di Noreen Masud: “Raccontiamo storie per renderle visibili, oppure lo facciamo in modo da non doverle più guardare”. E forse non è strano che quest’angelo appaia, nei giorni dello sgomento, come un cocuyo – come una lucciola, una mosca, un insetto.

Silvia Tebaldi

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