L’amoralità della letteratura*
1)Il sesso e il sangue di Guinea: l’indicibilità del desiderio
“Non sono come le altre donne. Il mio corpo ha bisogno del sesso ogni giorno e con urgenza. La mia vita potrebbe diventare orribile senza. In questo stato di reclusione e ansia, non so come potrò farcela”.
Questo è un libro del sangue: il sangue del sesso, il sangue delle bestie, il sangue di un desiderio che porta a impazzire.
Leggere questo libro significa fare un patto con Guinea, la sua protagonista, che è una fattucchiera e una mantide religiosa, uno speculum di tutto quello che potrebbe essere il mostruoso femminile ma che invece è solo l’esperienza splendidamente amorale della letteratura.
“Vladimir” di Leticia Martín è un libro importante perché è, prima di tutto, un compendio di tutto ciò che dovrebbe fare la letteratura: espandere la coscienza, non aver paura di scavalcare il perimetro della morale e, infine, polverizzare ogni luogo comune su ciò che può fare una scrittrice, quando brucia tutto il suo incenso narrativo sull’altare del cuento. E Leticia Martín sacrifica rami, legnetti, conchiglie e ossa antiche su quell’altare, e crea un rito sacrificale in cui i corpi dei personaggi crepitano, bruciano e fanno luce.
Leticia Martín è una scrittrice argentina, nel 2017 ha pubblicato la raccolta di saggi “Feminismos” e nel 2023, proprio con “Vladimir” ha vinto il Premio Lumen de Novela, proprio per il carattere dirompente del suo testo.
“Vladimir” è un romanzo che non cerca una lettura, ma un’immersione totale.
“Vladimir” è un romanzo che cerca un’apnea: per cominciare a entrare in questo testo, occorre bagnarsi i piedi, poco per volta, e sciacquarsi la faccia per prepararsi all’incantesimo di Martín, che non risparmia colpi sulla pelle umida, non risparmia schegge di vetri appuntiti.
Per cominciare a entrare nell’acqua di “Vladimir”, bisogna stringere un patto arcaico con la protagonista, Guinea, che è un mostro e una santa, una carnefice e un angelo, e bisogna fidarsi della sua voce che sa diventare una musica ipnotica o una marcia funebre.
La voce di Guinea sa farsi morbida e sprezzante, delirante e folle, capace di entrare nei gorghi più oscuri di un pozzo, e per seguire Guinea dobbiamo procedere col viso umido e i piedi scalzi.
Guinea è una professoressa che insegna all’università di Ramsdale, una donna di quarantacinque anni che ha due grandi passioni: la prima è la letteratura, con i suoi sonetti, la sua metrica e i versi di Federico García Lorca, e la seconda sono i ragazzi giovani.
Viene anche a noi, di innamorarci di questi giovani che sono la passione di Guinea: ci ritroviamo a spiare dal buco della serratura la peluria bionda che scende dall’ombelico di un ragazzino, quella peluria bionda che si infila nelle mutande come muschio leggero, a osservare le mascelle squadrate di uno studente, a fissare le spalle larghe di un adolescente che esce dall’aula, a immaginarli tutti nudi. Martín ci fa uscire fuori dal nostro involucro rispettabile e decoroso, quell’involucro intellettualizzante che proviamo a tenerci stretto, e ci mette in una posizione tribale e animalesca, ci rende tutti bestie e pantere, con le zanne ben affilate.
Martín ci fa ricoprire la posizione scomodissima del voyeur e ci fa entrare in un sottobosco non di ninfette, ma di ninfetti adolescenti, di ragazzi con le labbra delicate come fiori di carne, di cuccioli d’uomo che hanno occhi adulti, capaci di scatenare le braci di un desiderio più potente di un ciclone tropicale.
Il libro comincia, in medias res, con Guinea che scappa dalla sua vecchia università per via di uno scandalo e corre in Argentina: Guinea scende dall’aereo e si ritrova in una Buenos Aires senza corrente elettrica. Qui non abbiamo un’America Latina lussureggiante, sensuale e esotica, non c’è nulla che richiami alla voluttà e al godimento carnale, perché Martín ci priva di tutte le coordinate che conosciamo, ci spoglia anche della sicurezza del nostro immaginario e ci consegna un paesaggio totalmente desemantizzato.
Martín ci lascia spaesati in una Buenos Aires spoglia, senza elettricità, senza taxi, senza possibilità di prelevare soldi al bancomat, senza possibilità di poter caricare il cellulare, e il fantasma dell’America Latina evapora in un apocalisse postmoderno, con i colori torbidi e allucinati delle sterpaglie bruciate. Guinea, con la batteria del cellulare ormai agli sgoccioli, deve arrivare urgentemente nel suo alloggio, nel quartiere di Mataderos. Proprio quando Guinea perde tutte le speranze, incontra Rostov, un uomo del posto che si offre di darle un passaggio in macchina.
Nel frattempo, la città sta sprofondando in una guerriglia urbana violentissima per procacciarsi il cibo e le provviste, un bellum omnium contra omnes, e Guinea non può contare nemmeno sul cellulare per controllare l’indirizzo della sua destinazione: non ha altra scelta che accettare l’ospitalità di Rostov e fermarsi a casa sua.
Rostov vive in una casa con due grossi cani, Falucho e Borges, e con suo figlio Vladimir, che è il nucleo incandescente del microcosmo di Leticia Martín.
2) Dalla ninfetta al ninfetto. L’archetipo di Lolita: Nabokov, Buzzati e Martín
Vladimir è un ninfetto, un Lolito, un tredicenne a cui stanno cominciando a spuntare i primi baffetti, crocifisso in quell’età liminale tra l’infanzia e le prime pulsioni sessuali. Vladimir è un ninfo plebeo, come direbbe Domenico Rea, è una soglia testuale, è un corpo disincarnato e fatto di inchiostro, è il simbolo di un mondo infantile e selvaggio, di una sessualità innocente e che inizia a schiudersi, come la corolla di un fiore carnivoro.
Il riferimento a “Lolita” di Vladimir Nabokov è fin troppo palese per non essere notato, così come anche il rimando al nome Vladimir, e questo rompe il guscio della finzionalità per approdare al terreno dell’omaggio.
C’è al tentativo di cimentarsi in un fitto contrappunto intertestuale, che diventa il rovesciamento dell’archetipo nabokoviano. Guinea sembra l’alter ego femminile di Humbert Humbert, e non si vergogna di manifestare la sua passione per gli efebi, per gli adolescenti: la sua condizione non è condannata o patologizzata, ma è mostrata e sviscerata con tutti i crismi della letteratura.
L’Humbert Humbert di Nabokov scrive “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”, e si rivolge all’ectoplasma della sua ninfetta, la sua Lolita, la sua Dolores Haze, ma Lolita non è l’unica, c’è stata già un’altra Lolita nel suo passato, una ragazzina di nome Annabelle.
Allo stesso modo, quando la Guinea di Leticia Martín incontra il ninfetto Vladimir, in lui vede il ricordo esangue di un suo vecchio studente, Nicholas: lo scandalo universitario da cui Guinea sta scappando riguarda proprio il suo rapporto con l’alunno.
Mentre Guinea osserva Vladimir, in lui rivede il contorno dei glutei di Nicholas, i suoi pettorali, l’elastico delle sue mutande. La voce di Guinea è affannata e contraddittoria, sembra la voce di una menade, di una baccante a sud dell’Equatore, che esce dai contorni della tragedia greca e ci guarda con occhi di vetro.
“Temo per la mia psiche. A volte, penso di non essere una donna normale”: Martín costruisce un personaggio femminile inaffidabile e che ha paura del proprio stesso desiderio, una donna lontana dalla retorica dell’empowerment e dell’eroina che cerca emancipazione, perché Guinea è una vera e propria inetta, una quarantacinquenne capace di distruggere la propria carriera professionale soltanto per una scintilla di calore che avverte nell’ombelico, è una grande donna senza qualità che però non rimane bloccata nel Novecento, ma illumina lo spirito del nostro tempo.
Quando Guinea spia Vladimir che si passa il rasoio sul collo e sul petto, noi lo spiamo con lei, soffriamo e ci vergogniamo, ma vogliamo continuare a guardare la lama che scivola sulla pelle di Vladimir, vogliamo baciare e leccare quella pelle. Non ci liberiamo di quel desiderio madido di sudore e vergogna, ma abitiamo lo spazio della contraddizione, della nostra imperfezione, e la letteratura ci aiuta a esplorare quel nostro grumo intimo, e ci scopriamo malati di sesso, macellai e bigotti insieme.
Leticia Martín non ha paura delle etichette e non ha paura di inerpicarsi in terreni battuti finora soltanto da uomini, che hanno raccontato la passione di docenti o professionisti attempati per un’adolescente. Tra gli antecedenti illustri non c’è solo “Lolita”, ma anche “Un amore” di Dino Buzzati, il più lolitiano tra i libri del Novecento italiano, che narra la passione di Antonio Dorigo per la giovane Laide, in una Milano crepuscolare.
Nel suo romanzo “Un amore”, Buzzati scrive:
Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, e le ombre e i segreti di Milano.
Il Vladimir desiderato da Guinea è una proiezione, è la crisalide della giovinezza, è un calice da cui bere a sorsi pieni, è un liquore che non sazia mai: è come se Guinea, nella pelle di Vladimir, rivedesse la propria stessa innocenza passata, la sua carne che un tempo era stata elastica e profumata, Vladimir è un antidoto al mondo accademico e borghese, è un coltello affilato che uccide il borghese che è in noi, che lo soffoca in tutta la sua miseria conformista.
Vladimir conduce Guinea in un itinerarium carnale in cui non valgono le regole scolastiche, i dettami del buonsenso, le norme socialmente accettate: nel contro-mondo di Vladimir e Guinea dominano le leggi della saliva e dello sperma, il fiuto della bestia, lo scatto di nervi e il sesso come elemento conoscitivo.
I corpi di Vladimir e Guinea sono due corpi che non combaciano, perché il corpo di Vladimir è liscio e levigato come un sasso di fiume, e quello di Guinea comincia a avvizzire, a sfaldarsi in mille squame di pesce, a presentare i capelli bianchi: nella realtà borghese e benpensante, questi due corpi non avrebbero nulla in comune e forse risulterebbero anche ridicoli, ma nel mondo sanguigno e atemporale del sesso questi due corpi si conoscono a fondo, trovano l’incastro perfetto e si attraggono, in un tacito accordo di mucose, preghiere e disperazione.
3) La letteratura come espansione della coscienza
Scrivere un romanzo in cui è una donna matura a desiderare un suo studente è qualcosa di profondamente spaventoso, amorale e per questo liberatorio. Se lo fa un uomo ci si sente quasi rassicurati, perché si rientra nel cliché stantio del professore che desidera una ragazza, che è qualcosa a cui tutti siamo abituati o di cui abbiamo avuto esperienza, ma se lo fa una donna bisogna lottare con la vertigine di trovarsi di fronte a una furia, a una delle Erinni.
Ottessa Moshfegh, autrice del romanzo “Il mio anno di riposo e oblio” scrive: Abbiamo bisogno di romanzi che abitino un universo amorale, che trascendano i programmi politici descritti dai social network. Abbiamo bisogno di personaggi di romanzi liberi d’essere oscuri e sbagliati: altrimenti, come faremo a capire noi stessi?
Guinea è un personaggio mortale e elegiaco insieme, che ha la bocca screpolata per il troppo desiderio, che spalanca la lingua per cercare un ultimo bacio, è una donna che piange lacrime di solitudine, una maschera di cartapesta che trema al cospetto di un ragazzino.
Martín racconta con lucidità la febbre delirante di Guinea: lo fa con una prosa lucida e pulita, con una intelaiatura sintattica ordinata, che ha la sua forza proprio nel nitore e nella precisione con cui fissa i volti e i gesti dei personaggi.
La precisione della pagina di Martín fa brillare, in controluce, anche quelle scintille selvatiche e primitive che animano gli uomini e le donne di questo romanzo, in preda a pulsioni e slanci che somigliano a balzi di cani impazziti più a che passi umani.
“Vladimir” è un libro coraggiosamente e fieramente immorale, che si propone di indagare quel nido di vespe che è il desiderio umano, e Leticia Martín è musa e sirena ipnotica, la degna erede di tante altre scrittrici sudamericane che non hanno bisogno di compiacere nessuno e che hanno trovato nella spericolatezza la cifra più onesta dei loro testi.
Leticia Martín è la degna erede di due scrittrici in particolare: della sacerdotessa messicana del racconto, Amparo Dávila, e della spudorata strega uruguaiana Armonía Somers. Con l’autrice di “Morte nel bosco e altri racconti”, Martín condivide un certo gusto per il perturbante che si annida negli angoli più remoti del domestico: non c’è bisogno di scomodare i congegni narrativi del fantastico o di evocare un universo che sconfini nel real maravilloso, perché il terrore può annidarsi ovunque, proprio come un acaro di polvere.
L’orrore, in “Vladimir”, si nasconde nelle crepe dei muri, nelle piscine ricoperte di foglie, nella bava densa dei cani Falucho e Borges, nei pacchi di farina e nel pane fatto in casa. Anche il cibo, emblema di vita e nutrimento, può diventare un vero e proprio vessillo di disagio: la carne non è mai davvero carne, è pericolosa, e i personaggi sembrano consumati dalla più bieca sopravvivenza, dalla voglia di azzannare e cannibalizzare qualsiasi cosa. Con l’uruguaiana Somers, invece, Martín condivide un certo godimento nel maneggiare narrativamente la sessualità, nel dissacrarla, nel renderla veicolo di un turbamento che ha radici ataviche. Somers, nel suo romanzo “La donna nuda” e nella sua raccolta “Morte per scorpione e altri racconti” narra di una sessualità controversa, spaventosa, che mescola sacro e profano. Il racconto del corpo, quello non patinato e brandizzato, sembra essere ormai esclusivamente in mano alla sapienza alchemica delle scrittrici sudamericane: non il corpo trendy, ma il corpo che sussulta, trema e si contorce in preda a sudori e voglie isteriche, voglie sbagliate, voglie che fanno urlare di disperazione. Il corpo cantato da Leticia Martín è un corpo scandalosamente sincero, è un corpo tirannico e seducente perché non si limita a osservare o annusare l’oggetto del proprio desiderio, ma ci si getta addosso, lo sbrana vivo e ne sputa via il nocciolo. Le scrittrici sudamericane rivendicano la brutalità del desiderio, non hanno bisogno di addomesticarlo o pettinarlo per renderlo digeribile: perché la letteratura dovrebbe farlo?
In tutto questo, la Guinea del romanzo somiglia a un’antica maga, che potrebbe essere la Circe omerica o la maga della “Rayuela” di Julio Cortázar, divisa tra desiderio e sconcerto, fondamentalmente vittima di ogni sua ossessione. “Vladimir” non è un romanzo innocuo, perché si misura con quel limite scottante che è l’indicibilità del desiderio. Il desiderio non conosce filtri, non conosce moderazione, ha un’energia luminosa e luciferina insieme, e la letteratura deve saper raccontare la purezza e la perversione.
I personaggi di “Vladimir” sono come insetti intrappolati nell’ambra eterna, e quell’ambra è l’attesa, attendono fino alla fine, con i nervi che crollano: attendono che il blackout finisca, che la vita ritorni a scorrere, che l’acqua lavi il sangue e riporti tutto alla normalità. L’attesa è la lingua viva del lessico amoroso, nell’attesa c’è la quintessenza dell’amore. In “Frammenti di un discorso amoroso”, Roland Barthes scriveva: Sono innamorato? Sì, poiché sto aspettando. L’altro, invece, non aspetta mai.
I personaggi di Martín attendono in continuazione, senza stancarsi mai, e con loro attende anche Buenos Aires, la grande città piovra che stringe le ossa dei protagonisti, li fa urlare e impazzire e poi, con i suoi tentacoli, li scaglia contro i muri del non detto, condannandoli a aspettare per sempre, prigionieri di un desiderio e di un’arsura più grandi della stessa America Latina.
Monica Acito
*Prefazione al libro Vladimir di Leticia Martín, traduzione di Claudia Putzu per Mar dei Sargassi. Si ringrazia l’Editore per la concessione.













