Negli ultimi anni si sono ampliate le espressioni di riconoscimento della necessità di decolonizzare il sapere e l’arte, attraverso l’affermazione di altre voci e prospettive che per secoli sono state emarginate e messe a tacere. I movimenti di decolonizzazione, per raggiungere i loro obiettivi, devono avvenire sia nei paesi periferici che centrali, nei territori precedentemente colonizzati e nei territori degli ex colonizzatori, perché conseguenze come il razzismo, la xenofobia, il maschilismo, la visione colonialista e l’ignoranza sui diversi modi di vivere, pensare e sentire giungono fino all’epoca contemporanea, sia nel centro che nella periferia.
In Brasile, Paese con una popolazione di oltre 214 milioni di abitanti, nonostante una straordinaria diversità di razze e culture, persistono i mali ereditati dal colonialismo. Tuttavia, è cresciuto il numero e la forza dei movimenti intellettuali, artistici e politici che, oltre a chiedere leggi per ampliare le garanzie dei diritti umani e le politiche di riparazione, dimostrano che le trasformazioni più importanti avvengono nel campo della cultura.
Una recente espressione di questo fenomeno è stata la 34ª edizione della Bienal Internacional de Arte Moderna de São Paulo, che ha adottato come tema il verso “Faz escuro mas eu canto”, del poeta amazzonico Thiago de Mello.
Il gruppo di curatori della Biennale “propone l’Arte come campo di resistenza, rottura e trasformazione, interrogandosi su quali siano oggi le forme d’arte e di presenza nel mondo possibili e necessarie. E si chiede: in tempi bui, quali voci non possiamo seguire senza sentire?”.
Anche in Europa hanno guadagnato più spazio le proposte di decolonizzazione del sapere e dell’arte ed esponente di spicco è l’artista multidisciplinare Grada Kilomba, portoghese, con forti legami africani.
Grada Kilomba ha celebrato la chiusura dell’ennesima mostra di successo, questa volta al Palais de Tokyo, tenutasi a Parigi poche settimane fa.
Già dal nome della mostra “Ubuntu, un rêve lucide”, la maggior parte dei visitatori viene trasportata verso un luogo poco conosciuto, percorrendo le filosofie africane che svelano il significato della parola “Ubuntu” che integra le nozioni di umanità, collettività e ospitalità e che può essere interpretato come: “Io sono perché siamo”.
Ed è attraverso percorsi insoliti che l’artista ci fa riflettere criticamente sui temi della memoria, del trauma, del sesso, del razzismo, del postcolonialismo e delle nuove configurazioni del potere e della conoscenza.
L’anno scorso, durante un evento a Lisbona intitolato “Olhar para o Futuro”, in occasione del 31° anniversario del quotidiano portoghese Público, Grada è stata incisiva quando ha affermato che “il Portogallo è in ritardo sulle questioni relative a chi non è bianco”, sostenendo anche che è importante decodificare il mito secondo cui la lotta antirazzista porta fratture sociali: “La storia coloniale è presente nella nostra biografia da 500 anni, se non si fa un’opera di decolonizzazione, la violenza non si fermerà. Varie voci e corpi raccontano la loro storia”.
Oltre alla partecipazione del Presidente della Repubblica del Portogallo Marcelo Rebelo de Sousa, politici, accademici e artisti del Paese, l’evento in formato digitale ha avuto ospiti stranieri come l’ex Presidente del Brasile Fernando Henrique Cardoso la cui conferenza era intitolata “Olhar o Mundo desde Brasil” in cui ha presentato una riflessione sul mondo post-pandemia. Per un popolo formato da razze e culture d’origine diverse, le riflessioni che l’arte di Grada Kilomba propone sono fondamentali. Nel 2016 la sua partecipazione alla 32ª Bienal Internacional de Arte Moderna de São Paulo è stata accolta con grande entusiasmo e senso di urgenza.
Nominata per esporre al Padiglione del Portogallo alla Biennale di Venezia 2022, Grada Kilomba ha dovuto affrontare il rifiuto di un giurato portoghese che metteva in dubbio la rilevanza e la rappresentatività del tema del razzismo.
Criticando il carattere maschilista e fallico predominante nella cultura occidentale, Kilomba riconosce la conoscenza e l’arte come territori di decolonizzazione. Con la legittimità di chi conosceva i rituali accademici per ottenere titoli come il dottorato in Filosofia che ha vinto in Germania, paese in cui vive, fa la seguente critica: “Abbiamo una nozione molto patriarcale e fallica di cosa sia la conoscenza. Facciamo tante cose, ma c’è una gerarchia: ciò che è legato al mondo accademico è la vera conoscenza e la vera professione. Poi ci specializziamo in qualcosa, poi facciamo un master, un dottorato… È una cosa molto fallica che cresce, cresce, cresce. Penso che le cose siano molto più cicliche, più circolari, in cui le nostre conoscenze attraversano discipline diverse e dialogano con formati diversi” (El País, 2019).
Nella sua acclamata videoinstallazione “Illusions”, l’artista rifiuta la tesi dell’ignoranza sulla realtà del razzismo: “Non è mancanza di conoscenza, è un esercizio di potere, non voler sapere, non aver bisogno di sapere”.
Illusions è una performance di lettura dal vivo accompagnata da un video preregistrato, messo in scena da attori tra cui la stessa Grada, che fa un’analogia della società contemporanea – in particolare le esperienze di razzismo istituzionale – dai miti di Narciso ed Eco. Si tratta dell’illusione che viviamo in uno spazio bianco, come un cubo bianco, che esclude ed emargina tante altre identità.
Riferendosi all’installazione, l’artista spiega “Cerco di fare un collegamento tra il mito di Narciso e la società in cui viviamo, che è molto concentrata sul recupero e reinventare il passato e che ha immensa difficoltà a stare nel presente e raggiungere il futuro”.
Nelle sue diverse produzioni, la sua voce si leva in opposizione al discorso autoritario e narcisistico del bianco e degli stili standardizzati di essere e desiderare, secondo il quale “ogni altro può esistere solo se è uguale alla propria immagine”.
Come ha esaltato Grada Kilomba in relazione a corpi e voci storicamente emarginati e messi a tacere, “non c’è più modo di mantenerli in questo non luogo”.
Raccontare il mito di Narciso è più che opportuno, necessario, per non perderci in una falsa immagine che, alla fine, ci allontana da noi stessi e dal riconoscimento di ciò che è comune a tutti.
Arnaldo F. Cardoso