Linea nigra è il secondo libro dell’autrice messicana Jazmina Barrera (Città del Messico, 1988) a esser stato pubblicato nella sua versione italiana dalla casa editrice indipendente La Nuova Frontiera, che aveva precedentemente curato l’edizione di Quaderno dei fari, entrambi nella traduzione di Federica Niola.
Il romanzo – termine non adottato con assoluta scioltezza, poiché la scrittura di Barrera non è ascrivibile a un unico genere letterario – vede al centro l’autrice e la sua esperienza della maternità; ne ripercorre i momenti chiave, lasciando spazio a interessanti (e scomode) riflessioni, che trovano ascolto in una rete di riferimenti culturali, attraverso i quali viene a crearsi una sorta di universo alternativo.
L’autrice racconta questo periodo della sua vita attraverso una narrazione frammentata – in contrasto con una scrittura eccezionalmente scorrevole – composta da paragrafi più o meno estesi, separati da asterischi – tecnica simile a quella adottata da un’altra voce latinoamericana importantissima, Leila Guerriero – che dividono scene tra di loro sconnesse, ma che trovano una loro organicità sia nel tema principale, sia in quel senso di straniamento che regna lungo tutto il romanzo.
Il titolo Linea nigra deriva dall’omonima discromia che segna la pancia delle donne, durante la gravidanza, così come quei nove mesi segnano un prima e dopo nella vita di una donna; Jazmina Barrera racconta questa sua esperienza, al netto di qualsiasi retorica e difesa: ci si scontra con la sua sopraffazione, lo smarrimento, la tensione che sale durante le visite nello studio del ginecologo, le parole a volte poco incoraggianti delle persone che ha intorno, la frustrante sensazione e convinzione che nessuno possa comprendere fino in fondo ciò che sta attraversando. Quel periodo della gestazione diventa una sorta di dimensione parallela, che trascende il tempo – per dirla con Faust, grande capolavoro di Goethe – quel “posto delle madri”, in cui l’autrice si ritrova totalmente a contatto con se stessa, di fronte al suo corpo che cambia, fissando quell’addome rigonfio, sognando di penetrare con lo sguardo le pareti di quella crisalide, per cercare di osservare l’opera della natura che si compie, nel tentativo di dare una qualche spiegazione a ciò che sta accadendo con il suo corpo, il vero protagonista del romanzo.
Jazmina Barrera gli attribuisce più di una lettura: corpo come contenitore, come macchina che produce, che crea; corpo che nutre, soprattutto un corpo che sembra non appartenerle più e che non riconosce; scrive:
“Mi sento come se qualcun altro mi stesse usando per fabbricare un essere umano, ma non sono io a crearlo, le mie mani sono fuori dal mio ventre e non ne so niente, anche se leggo che ha già i polmoni, e gli occhi e i capelli, non saprei assolutamente spiegare come si sta facendo. Sembra tutto così improbabile, una specie di allucinazione o di storia fantastica”.
È così che si apre la strada a una serie di domande: quanto ci si sente effettivamente coinvolte nella gestazione, quando non si è propriamente testimoni del formarsi di una vita all’interno del corpo, e ancora, quanto ci si sente coinvolte durante il parto quando, qualora esso sia naturale, l’unica cosa visibile dalla prospettiva di una donna è il volto del dottore che estrae il bambino da quel corpo? Questo costante interrogarsi costituisce il fulcro a cui ruota attorno la prima parte di Linea nigra, per poi lasciare spazio a una seconda parte, che inizia dal corpo, quando il dottore mette sul petto della madre il neonato, e con il corpo prosegue, con l’allattamento. È l’inizio di una nuova fase, fatta di progetti che si riplasmano, di certezze che si riscrivono, di eventi che stravolgono tutto.
In tale “terremoto”, la forza e la bellezza di questo romanzo giacciono in quella rete di supporto che Barrera riesce a creare, grazie a quel suo “collezionare” – espediente già visto in Quaderno dei fari – attraverso la scrittura, quadri, foto e parole di autrici, fotografe, pittrici che hanno raccontato la maternità, ognuna in modo diverso e che le donano un’oasi di comprensione, in un deserto di pareri, in cui potersi esprimere e in qualche modo rispecchiare. In quella “realtà in simultanea” che l’autrice crea con Linea nigra, queste donne erano lì insieme a lei.
L’onestà e la semplicità, e io mi sento di dire anche la forza, con cui Jazmina Barrera riesce a raccontare questa sua esperienza, fanno in modo che Linea nigra sia un romanzo destinato a restare nella mente e nel cuore del lettore che ci si confronta; per una donna che legge Linea nigra, e magari sta vivendo la maternità, che le parole di Barrera siano invece un invito a non – e riprendo, non letteralmente, le parole di Ursula K. Le Guin – accettare la negazione della propria esperienza, per riadattarla a ciò che gli altri vogliono sentirsi dire: è il momento di riscrivere il mondo. Di riscriverlo con il corpo, di riscriverlo con il latte.
Claudia Putzu