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Sono ancora qui, Marcelo Rubens Paiva

Sommario

Dovessi sintetizzare con una sola parola, Sono ancora qui, il bellissimo libro di Marcelo Rubens Paiva (La nuova frontiera, 2025, traduzione di Marta Silvetti), userei la parola memoria, e non perché il testo in sé sia proprio un memoir, ma perché in quelle sette lettere passano – tra le pagine – tutte le sfumature, le possibili accezioni, l’importanza che diamo alla memoria. Memoria storica, memorie personali, l’importanza di ricordare, di portare a conoscenza fatti pubblici o privati, tramandare per salvare, e, allo stesso tempo, a far da contraltare la memoria che si perde, che svanisce, che viene sottratta alla collettività dal potere, mentre agisce nell’ombra, e che la malattia porta via a poco a poco a chi ha lottato una vita per fare luce sulle vicende di un paese, il Brasile, e per restituire una verità sottratta, più intima, più personale alla propria famiglia. L’esistenza dello scrittore brasiliano ondeggia da sempre, dalla nascita tra storia familiare e storia del paese, perciò storia politica. Il suo libro racconta semplicemente i fatti, ciò che è stato, e si muove come in una danza terribile e luminosa tra due poli, la dittatura brasiliana da un lato, la malattia mentale, l’Alzheimer di sua madre, dall’altro. Ed è proprio l’equilibrio la chiave che regge il suo racconto. Lo scrittore fa continuamente avanti e indietro nella storia familiare e in quella del paese, presentando testimonianze, verbali di interrogatori e alternandoli a momenti intimi, familiari, personali. L’orrore per le descrizioni delle torture è bilanciato dalla commozione che viene nel leggere la determinazione di sua madre nel ricominciare da capo, ricostruire una nuova vita personale e lavorativa, senza mai perdere di vista l’obiettivo, scoprire – e poi aver conferma – di ciò che hanno fatto a suo marito, uomo politico che fu portato via da casa, a Rio De Janeiro, nel gennaio del 1971, torturato e ucciso nell’arco di meno di 48 ore.

«Il 20 gennaio 1971, giorno festivo, è un giorno che non finisce mai. Ci abbiamo messo molto tempo a capire perché quel giorno è esistito ed è andato in quel modo. Dopo la passeggiata sul lungomare, mio padre si sdraiò sul divano dello studio di casa, si accese un sigaro e iniziò a leggere i giornali. Mia madre gli fece compagnia. Poco dopo le dieci del mattino, squillò il telefono. Una voce femminile chiese il nostro indirizzo per consegnare un pacchetto dal Cile. Lui non notò niente di strano e glielo diede».

Le vicende, in breve. Rio de Janeiro, gennaio 1971, come detto. Marcelo ha solo undici anni quando il padre, un ex deputato, viene sequestrato dagli agenti della dittatura militare. Da quegli istanti, e per molti anni, di suo padre non si saprà più nulla. Marcelo è uno dei cinque figli che Eunice, sua madre e Rubens, suo padre, hanno avuto. Eunice si carica del dolore e del senso di perdita, riprende in mano la sua vita e tiene per mano ciascuno dei suoi cinque figli. Mentre ostinatamente vuole far luce sulla scomparsa del marito e sui giorni bui della terribile dittatura brasiliana, proietta sé stessa e i suoi ragazzi nel futuro, tenendo per sé la sofferenza, sorridendo nelle foto ufficiali. Riprende gli studi e si laurea in legge, dedicandosi alla difesa dei diritti civili, alle lotte per la democratizzazione del paese, pensando sempre ai più deboli, agli emarginati, ostinatamente proiettata alla ricerca della verità, e alla salvaguardia della memoria personale e collettiva. Una donna straordinaria, diventerà uno degli avvocati più influenti del paese, e il paese – così a lungo dominato dalla dittatura – deve a lei e altri come lei la luce e l’ossigeno finalmente arrivati. Molti anni dopo la sparizione del padre e le battaglie, nel momento in cui Eunice si ammala di Alzheimer, Marcelo comincia un percorso all’indietro personale e collettivo. Scrivere questo libro è un atto di testimonianza che salvaguarda l’identità della famiglia e che si fa ampia e racconta le vicende del popolo brasiliano dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Un lavoro straordinario di cui gli siamo grati.

«La cosa che ammiro di più di lei e che cerco di prendere come esempio per la mia vita è che non si è mai autocommiserata. Sapeva che la sua malattia degenerativa causava disagi per gli altri. Ci convive appieno facendo scenate, diventando irritabile, soffocando la frustrazione con il cibo, dimenticando tutto con dignità. Stranamente non ha mai pronunciato il suo nome: Alzheimer».

Marcelo Rubens PiavaPaiva è emozionante, ironico, riflessivo, istintivo. Riesce a raccontare i momenti difficili della dittatura e quelli successivi, e poi, andando all’indietro, a presentarci momenti del passato, di stupori adolescenziali, di vita sociale, di feste, primi baci, musica rock, calcio, naturalmente. Bagliori rarefatti prima del buio, prima del dolore. Il centro del suo racconto è sua madre, una donna eccezionale che diventa un personaggio letterario indimenticabile. Passa una vita senza piangere in pubblico e a lottare e comincia a perdere la memoria proprio quando la verità per cui ha combattuto prende – anche ufficialmente – a venire a galla. Paiva apre il romanzo con sua madre che, con la malattia agli inizi, in tribunale, un po’ confusa ma ancora lucida, affida ai suoi figli la sua tutela. Ci si commuove subito e poi si viaggia all’indietro e ci si innamora di Eunice e dell’amore che Marcelo e le sue sorelle provano per lei. È bello amare così, è bello essere protetti così. Ed Eunice li protegge dal dolore per tutta la vita, e loro la proteggono dall’oblio, lasciandola scivolare con dolcezza.

«Un giorno ho fatto un’incredibile scoperta: non ho mai ballato con mia madre. Non l’ho mai abbracciata veramente. Non ci siamo mai rotolati a terra insieme facendo il solletico. Non abbiamo mai riso insieme. Il nostro rapporto era come le regole che mi insegnava: protocollare. […] Non ho mai potuto chiederle consiglio sulle ragazze, in un’adolescenza che arrivò senza tappe intermedie».

Dal libro, il regista Walter Salles ha tratto un film meraviglioso, pluripremiato, con la grandissima Fernanda Torres nel ruolo di Eunice.

Le dittature del Sudamerica, così prossime nel tempo: Brasile, Uruguay, Cile, Argentina, sono vicine a noi anche sentimentalmente. Noi a quei popoli ci sentiamo vicini, li sentiamo fratelli. Ecco perché non riusciamo a smettere di leggere romanzi, saggi, poesie che raccontano quegli anni. Perché vogliamo capire, perché avremmo voluto salvare qualcuno, perché sentiamo di averla scampata.

Gianni Montieri

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