Lo scorso 20 agosto, l’Ecuador è stato chiamato a un referendum che avrebbe decretato la sorte del Parque Nacional Yasuní e delle attività estrattiviste portate avanti nell’area di quello che il Ministero dell’ambiente, dell’acqua e della transizione ecologica ha definito un «santuario della biodiversità». Ha vinto il sì contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi con il 59% dei voti.
Il Parque Nacional Yasuní, istituito nel 1979 e dichiarato riserva naturale nel 1989, si estende su una superficie di circa 10000 chilometri quadrati, abbracciando le provincie di Pastaza e Orellana, nei territori compresi tra il fiume Napo e il fiume Curaray e la Foresta Amazzonica. Gran parte del territorio è costituito dalla foresta pluviale, zona protetta che ospita diverse specie autoctone di animali, iniziando dagli insetti, il cui numero è maggiore delle specie finora documentate, passando per i volatili, concludendo con rettili e anfibi, tra essi esemplari di rane Phyllomedusa vaillantii, e serpenti della specie Oxyrhopus melanogenys, senza contare le numerose specie vegetali che coprono due acri di terreno, ossia più delle distese di alberi del Canada e degli Stati Uniti messi insieme.
Inoltre è la dimora delle comunità Tagaeri-Taromenane, per le quali, nel 1999, il governo dell’Ecuador istituiva la cosiddetta Zona Intangibile, per un’area di 7500 chilometri quadrati che copriva la regione amazzonica al confine con il Perù, delimitata da una zona cuscinetto con lo scopo di garantirgli ulteriore protezione.
A ridosso, però, dell’area interessata, avevano e hanno luogo le attività portate avanti dall’industria petrolifera, il cui avanzamento viaggia in direzione contraria al carattere nomade delle comunità appena menzionate, le quali avevano rifiutato in passato qualsiasi processo di assimilazione e conversione da parte dei missionari evangelici dell’Istituto Linguistico del Verano.
Nel 2013 si è vista naufragare la proposta portata avanti dal Presidente Correa dal 2007 di ottenere finanziamenti internazionali per porre un freno all’estrazione di petrolio e contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Gli stati esteri hanno finito per rigettare tale progetto, a eccezione di alcuni stati che hanno fatto in modo che prendesse la direzione opposta, data la centralità del Parco Nazionale, detentore di circa il 20% delle risorse mondiali di petrolio, incentivando l’espansione della frontiera petrolifera, che sarebbe andata a toccare anche un’area compresa nella ZITT (Zona Intangibile TagaeriTaromenane); ne è derivato un acceso dibattito civile che vedeva contrapporsi le organizzazioni ambientaliste e quelle indigene con i sostenitori del progetto che avrebbe ulteriormente compromesso una situazione le cui criticità erano note già da diverso tempo.
Già nel 2005, infatti, un comitato scientifico che riuniva, tra le altre, firme quali quella del Dottor Carl Ross (direttore del Dipartimento di ricerca Matthew Finer di Washington), della Dottoressa Jane Goodall (direttrice della facoltà Scienze e Ricerca del Jane Goodall Institute di Silver Spring), di Stuart Pimm (ricercatore al Doris Duke Chair of Conservation Ecology della Nicholas School of the Environment and Earth Sciences, Duke University, Durham, North Carolina), e infine Edward O. Wilson (ricercatore e professore emerito, nonché curatore in entomologia all’Harvard University di Cambridge), in una lettera indirizzata al Governo dell’Ecuador scriveva: “Siamo estremamente preoccupati dall’irreversibile danno ecologico che l’installazione di nuovi condotti per il petrolio causerà alla più importante foresta pluviale del mondo dal punto di vista della biodiversità. Ciò in virtù del fatto che tali installazioni non sono solo un danno alla biodiversità naturale, ma anche dal punto di vista politico, in quanto danno accesso a diverse multinazionali del campo energetico che favoriscono l’ingerenza dei paesi esteri, a scapito delle popolazioni più fragili che abitano il territorio”.
Per questo il risultato ottenuto, che ha visto circa il 68% di una popolazione da sempre divisa su questo argomento, a favore della riduzione della superficie destinata a tali attività, si rivela una promessa incoraggiante per quelle organizzazioni che da tempo si battono per il Parco Nazionale – tanto quanto per le altre riserve che punteggiano il territorio dello stato latinoamericano, tra cui quella del Chocó Andino, a nord-ovest della provincia di Pichincha, per la quale si è tenuto un Referendum analogo a cui hanno partecipato solo gli abitanti del Distrito Metropolitano della provincia di Quito – che cercano un’alternativa all’estrattivismo, ma soprattutto per preservare quello che non è un pozzo di petrolio, né una fonte di ricchezza, bensì un polmone naturale di vitale importanza, non solo per l’Ecuador ma per il pianeta, con l’auspicio che sia l’innesco di una reazione a catena verso la possibilità di un futuro in grado di preservare la ricchezza presente in questi territori e tutelare le popolazioni incontattate che li abitano nel rispetto dell’ambiente che le circonda.
Claudia Putzu